il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2021
Linn Ullmann racconta Ingmar Bergman, suo padre
“Figlia illegittima. Bastarda. Mocciosa”. Linn Ullmann nasce dalla superba Liv nel 1966. Il cognome del padre è ancora più celebre, ma non l’avrà: “Una figlia in più. Ne aveva già otto e lo chiamavano il regista diabolico (qualsiasi cosa significasse) e dongiovanni (piuttosto chiara, questa definizione). Io ero la nona”. Papà era Ingmar Bergman, sinonimo stesso, o forse superlativo assoluto, di Settima Arte: da Il settimo sigillo (1957) a Il posto delle fragole (1957), da Persona (1966) e Fanny e Alexander (1982), capolavori come se piovesse o, nel suo caso, come se figliasse. Con un titolo, Scene da un matrimonio (1973), fu reticente: si sposò cinque volte e, scrive Linn nel memoir Gli inquieti, a mamma non “piaceva trovarsi fra la numero quattro e la numero cinque”, ovvero l’ultima moglie Ingrid. Morì nel 1995, gettando Ingmar nella depressione: “Ingrid era una donna pratica e per questo lui l’aveva amata più delle altre. La pianse così profondamente da voler morire”. Ci furono altre attrici, quali Harriett Andersson e Bibi Andersson, con cui Bergman intrecciò una relazione, ma Liv fu la sua unica musa. Almeno, fummo noi a definirla tale, non Ingmar: “Non credo che abbia mai usato la parola ‘musa’. Le chiamava Stradivari – violini, strumenti – mai muse. In norvegese, ‘musa’ è una parola alquanto divertente che può significare, anche se con una pronuncia diversa, ‘topo’ e ‘fica’”.
Aneddoti, pensieri e sentimenti che Ingmar, alias “Pappa”, avrebbe confidato a Linn nella sua casa di pietra in mezzo ai boschi su un’isola del mar Baltico, Hammars: “Aveva ottantasette anni quando ci venne l’idea del libro. Mio padre ha avuto nove figli da sei donne diverse… dovrei riuscire a farlo parlare di questo argomento, ricordo di aver pensato”. Non se ne sarebbe fatto nulla, eccetto qualche registrazione, perché l’invecchiare da tema letterario sarebbe diventato ostacolo psicofisico: ogni mattina Ingmar stilava un elenco dei suoi acciacchi, dalla sciatica all’ansia al pensiero della giornata, se la lista ammontava a più di otto voci rimaneva a letto, “perché ho superato gli ottanta. Mi concedo un malanno per decennio”. Ne è quindi venuto Gli inquieti (Guanda), reinvenzione della storia di un padre, una madre e una figlia tra ricordi e suggestioni, ma il libro originariamente inteso sarebbe stato migliore, di sicuro nell’intestazione: “Scopata & ammazzata a Eldorado Valley, giacché ho sempre desiderato intitolare così uno dei miei film, ma non ne ho mai girato uno che c’entrasse”. Ingmar credeva “in Dio sotto ogni aspetto, però non pretendo di capire il suo volere. Dio è nella musica”. Bergman riconosceva i meriti dei colleghi, “Woody Allen è decisamente un regista di prim’ordine. Crimini e misfatti è un capolavoro, però (a Linn, ndr) vedo che hai scelto Manhattan. Un buon film”. A Linn disconoscevano i meriti del genitore: “Godard, Chabrol, sono diecimila volte più interessanti della roba di tuo padre”, pretendeva un fotografo di moda; “Antonioni è meglio di tuo padre, sai. Si preoccupa più del mondo”, voleva un ragazzo newyorchese fumando uno spinello. Anche Pappa si dichiarava “convinto e assuefatto consumatore”, di sonniferi però: “Rohypnol, fantastico, due al giorno più un paio di Valium la sera e un paio al mattino”. Ma la dipendenza più duratura, forte e creativa fu per l’universo femminile: “Credo che buona parte della mia vita professionale abbia ruotato intorno al mio grande amore per le donne”, capaci di influenzarlo “in tutti i modi immaginabili”. E il sesso, certo, prima che fosse vecchiaia: “La sessu… (emette una specie di barrito) sessualità, per esempio. Scompare. Completamente, cioè. E questo… non ti fa neanche star male. Si dissolve e basta”. Analogamente si archiviano luoghi comuni e false certezze, per esempio di un Bergman, complice l’iconica partita a scacchi del cavaliere del Settimo sigillo, concentrato sulla morte: “Me ne sono preoccupato in modo molto modesto. La morte come tradizione, come fantasia, sì, però non l’ho mai presa sul serio. Cosa che, naturalmente, adesso devo fare”. Ingmar morì il 30 luglio 2007.
Nascosti dietro la porta dello studio, Linn Ulmann trovò due post-it gialli scritti a mano dal padre. Erano lì da molto tempo. Su quello a sinistra c’era scritto: “È una cosa terribile finire nelle mani di Iddio vivente. Ma soltanto allora l’uomo può fare ammenda”. Su quello a destra: “Forse è questo che cerchiamo per tutta la vita, il peggior dolore possibile, per essere veramente noi stessi prima di morire – CÉLINE”. Non sappiamo se e con quale dolore Bergman riuscì a essere appieno sé stesso. Sappiamo però che non si ridusse mai alle nostre aspettative, fino alla fine. Ve lo immaginate l’anziano regista che nel 2005 segue in tv i funerali di Giovanni Paolo II, “conoscendo a memoria i passi della Bibbia”, apostrofare la povera, goffa Linn che gli rovescia addosso dell’acqua: “Brutta stronza. Fredda, cazzo… brutta stronza”. Era suo padre, era Ingmar Bergman. E non ha smesso di stupirci.