il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2021
La breve storie delle ferrovie
Poche storie come quella dell’Alta velocità ferroviaria, o meglio delle ferrovie in Italia, raccontano meglio il declino di un Paese che ha perso sfide importanti per modernizzarsi e che continua a snobbare le valutazioni negli investimenti pubblici.
Dopo il conflitto bellico, l’Italia scelse di ricostruire la sua rete dei binari senza puntare sull’innovazione tecnologica (come fece il Giappone con la rete veloce degli Shinkansen). Tutto venne rifatto “com’era e dov’era” mai immaginando l’arrivo della motorizzazione di massa. Le ferrovie hanno perso rilievo accumulando deficit. Agli inizi degli anni 90, per importare l’Alta velocità si scelse il sistema più costoso possibile: nuova rete separata, “alla francese”, ma con caratteristiche tecniche adatte anche per le merci, “alla tedesca”.
Le Fs, guidate da Lorenzo Necci, decisero per un sistema a T (Torino-Venezia e Milano-Napoli), finanziato per il 60% dal mercato e per il 40% dallo Stato. A un brillante economista dei Trasporti, Marco Ponti, fu chiesto di valutare il modello finanziario. Ponti arrivò alla conclusione che non stava in piedi: lo Stato si sarebbe accollato tutto. Gli venne risposto che “era necessario simulare una forte partecipazione del capitale privato per rendere politicamente accettabile il piano” e che lo avrebbero mantenuto a libro paga. L’analisi costi-benefici sociali fu affidata ad altri e fatta non per tratte ma nel suo insieme, vanificando l’analisi. Necci affidò l’Av senza gara ai sette consorzi guidati dall’Iri e dall’Eni (pubblici) e dalla Fiat e dalla Montedison (privati) per tagliare fuori la concorrenza straniera. Lo Stato ha speso oltre 90 miliardi.
Ponti aveva ragione. Ed è anche solo per questo che oggi è utile leggere L’ultimo Treno, edito da Paper First, dove ricostruisce, insieme all’ingegnere esperto di trasporti Francesco Ramella, una storia presentata sempre come un successo da una stampa compiacente. Ponti è stato consulente di cinque ministri – e collaboratore del Fatto fin dalla sua nascita – un raro esempio di esperto in grado di unire passione civile e rigore accademico, sempre cercato dai ministri di ogni colore che quasi sempre ha mollato quando gli sono state imposte scelte non condivisibili (è successo col governo gialloverde dopo la bocciatura di Tav, Terzo Valico etc.).
Il libro è una miniera d’oro di informazioni. Le Fs sono un campione nazionale presentato come profittevole, ma incassano un flusso enorme di trasferimenti pubblici motivati dal loro servizio sociale, di cui però è difficile valutare i benefici sociali e ambientali perché nessuno dice quali sono i parametri. Sussidiare le imprese non è un male, ma la trasparenza è d’obbligo. I sussidi mantengono le tariffe basse per gli utenti, che non si lamentano, ma non coprono gli investimenti. Dati chiari e pubblici non esistono. Per la prima volta, Ponti e Ramella riescono a tracciare un bilancio. Tra il 1990 e il 2016 le spese sono state di 555 miliardi, i ricavi 117 miliardi: lo sbilancio è a carico dello Stato, eppure le ferrovie soddisfano solo il 6% della mobilità. È un settore dove il regolatore è stato catturato nell’acquiescenza di tutti (i benefici son saliti nell’Av grazie alla concorrenz, assente nel trasporto locale). Dagli anni 90, le grandi opere ferroviarie sono state sempre sottratte alle analisi costi-benefici, con l’ok dell’Ue. Il conto è stato salato e i benefici, anche ambientali, poco chiari. Oggi che il Recovery stanzia altri 20 miliardi, sarebbe utile affidarsi davvero a valutazioni indipendenti. Il libro illustra perché non accadrà nemmeno questa volta.