Corriere della Sera, 18 marzo 2021
Intervista a Vic, la bassista dei Måneskin
Damiano «licenziato» e poi ripreso. La scelta del nome per la band. C’è una regia occulta dietro una parte della storia dei Måneskin, la band romana che ha vinto Sanremo. E a firmarla è Victoria De Angelis, 20 anni, la bassista. I Måneskin non sono un leader e tre comprimari. A «X Factor» era uscita la personalità di Damiano David, il suo istrionismo e la sua ambiguità. All’Ariston si è vista la forza del gruppo, costruita concerto dopo concerto. Domani pubblicano «Teatro d’ira vol. 1» («La nostra rabbia non è distruttiva, si trasforma in qualcosa di positivo», dicono), prima parte di un progetto che verrà presentato da dicembre con un tour nei palazzetti.
Il rock non è per signorine...
«Ho vissuto più stereotipi da bambina perché mi piacevano lo skate e il calcio... La musica è un ambiente più libero».
Non era una bambina da principesse Disney?
«Non ho proprio vissuto quella fase... Non avevo amiche femmine, non mi interessava pettinarmi i capelli, giocare con le bambole... Trovo assurdo che già a 6-7 anni si possa essere plasmati dalle impostazioni della società. Qualcosa sta cambiando, certe idee vanno smantellate, ma il percorso è lungo. Se usi un linguaggio forte dicono “ma come, sei una signorina”. Potrei dire una parolaccia all’Eurovision per compensare quelle tolte per regolamento dal testo di “Zitti e buoni”».
In Italia le donne nel rock scarseggiano... Gianna Nannini e poi?
«Più in generale è il rock a non essere tanto presente. Tolti Litfiba e Vasco, anche nomi fondamentali come Afterhours e Verdena sono rimasti fuori dal mainstream».
Nel 2020 c’erano solo 8 donne soliste nei primi 100 posti della classifica. È un settore maschilista?
«Sì, ma è riflesso della società estremamente patriarcale in cui viviamo. Nella musica c’è una tendenza a sessualizzare molto le artiste italiane: si dice che è una è bona, non che è brava. E se una twerka non si è ancora capito che lo fa per divertirsi e non per far piacere a un uomo».
Lei twerka?
«No, magari me lo può insegnare Damiano...».
I suoi primi passi rock?
«A 8 anni ho iniziato a suonare la chitarra in modo istintivo. E infatti alle medie musicali la prof mi sgridava per la posizione. In un paio di occasioni mi ha fatto provare il basso e da lì non l’ho mollato».
L’incontro con i ragazzi?
«Alle medie avrò messo in piedi una decina di gruppi e in uno dei primi c’era Damiano. Ci chiamavano The Third Room: suonavamo in aula 3. Facevamo metal e Damiano voleva fare cose più pop. Lo abbiamo allontanato».
Come si arriva alla formazione finale dei Måneskin?
«Ho incontrato Thomas (Raggi, il chitarrista ndr) e con lui abbiamo cambiato un sacco di cantanti. Non ci convinceva nessuno. Si è rifatto vivo Damiano. Mi ha scritto che voleva fare sul serio: non era più una pippa, era migliorato. Poi ecco Ethan (Torchio, il batterista ndr), trovato con un avviso su Facebook».
Il nome lo ha scelto lei?
«Dovevamo partecipare a un concorso e non avevamo ancora un nome. La sera prima ci siamo messi a cercarlo e gli altri mi hanno detto di provare a dire delle parole in danese. Non mi ricordo quali fossero le altre, ma è piaciuta måneskin, chiaro di luna».
Si sente un modello per altre ragazze?
«Mi sentirei arrogante. Cerco di fare il mio e in questo modo spero di mandare messaggi positivi».
Femminismo è una parola polverosa?
«È una parola fraintesa. Per molti indica la necessità di difendere le donne, quando il suo significato è parità fra i sessi. Chi non è a favore di questo è un idiota. Mi infastidisce anche il termine nazi-femminismo: chi losa si interroghi sugli atteggiamenti sbagliati dati per scontati».
Mamma danese, in cosa si sente scandinava?
«Colori a parte? Forse il modo di pensare. Quando andavo in Danimarca in vacanza vedevo i bambini molto più liberi, mentre in Italia le mamme sono apprensive. E poi in Danimarca sono più avanti rispetto a noi sugli stereotipi di genere. Sono cresciuta più aperta, ma anche papà che è italiano ha sempre avuto una mentalità aperta».