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 2021  marzo 18 Giovedì calendario

Di cosa parliamo quando parliamo di viltà

Esiste una viltà degli antichi e una dei moderni: o meglio, un’idea della viltà che si evolve nel tempo anche se, al fondo, ha sempre un nocciolo comune. C’è quella dei combattenti, ma anche quella di ogni giorno, di chi abdica consapevole o meno alla propria dignità. C’è la viltà di cui si viene incolpati, magari a torto, e quella che sentiamo profondamente nostra, fonte di segreta vergogna. E c’è anche la viltà arrogante, di coloro che non se ne vergognano mai, anche se al fondo è marginale: perché secondo Peppino Ortoleva, studioso di storia e teoria dei mezzi di comunicazione, che all’argomento dedica un saggio storico-filosofico (Sulla viltà, Einaudi), siamo di fronte a qualcosa che si impone di per sé, uno stigma difficile da ignorare. Samuel Johnson, l’intellettuale più prestigioso del ’700 britannico, ne tesse un (rarissimo) elogio, al limite del paradosso: «È quindi la reciproca vigliaccheria quella che conserva la pace... Se tutti fossero valorosi, la vita diventerebbe assai difficile, perché tutti si batterebbero continuamente; siccome invece siam tutti codardi, tiriamo avanti benissimo». Ma anche quel «tutti codardi» sa, a ben guardare, di vergogna.
Di che cosa parliamo, dunque, quando parliamo di viltà? Di un’ombra, risponde Ortoleva. Pensiamo di sapere benissimo che cosa sia, ma ci accorgiamo che ne abbiamo un’idea contradditoria, che ci costringe a definire molti altri aspetti dell’agire umano, per esempio il coraggio. Gli antichi avevano meno problemi, al proposito. Il primo codardo dell’Occidente, nel racconto di Omero, è Tersite, il soldato brutto e deforme che incita i compagni alla ribellione, ad abbandonare Troia e risalire sulla navi, e viene punito e ridicolizzato da Ulisse, deriso dagli astanti, umiliato, ridotto alle lacrime. Il segno della sua viltà non è forse il pianto, considerato che gli eroi omerici piangono spesso e volentieri, quanto la sua condizione sociale. Nella cultura greca – e non solo – coraggiosi sono e debbono essere i nobili, vile può essere il popolo.
È interessante vedere come questa contrapposizione, si direbbe di classe, verrà a cadere sì con la Rivoluzione francese e gli Stati-nazione, quando si afferma la dottrina del popolo in armi, ma percorre come un filo segreto la nostra storia. Ortoleva cita ovviamente don Abbondio, che nei Promessi sposi pronuncia la frase emblematica di tutti i codardi, «il coraggio, uno non se lo può dare». Ma fra quelle pagine c’è anche il celeberrimo insulto che un nobile rivolge al futuro padre Cristoforo, che si rifiuta di cedergli la strada: «Nel mezzo, vile meccanico!». Ludovico-Cristoforo risponde «Voi mentite ch’io sia vile» e impugna la spada. È come se Tersite reagisse alle bastonate di Ulisse, ma non solo: perché Ludovico trova nel pentimento per il gesto di violenza la via della propria salvezza spirituale – o individuale, la via comunque di una superiore dignità.
L’ignominia – osserva Ortoleva - è implicita già nell’insulto, nella taccia di codardia o viltà. Il codardo spesso muove al riso (la sua icona contemporanea è, si direbbe, l’immortale Fantozzi). Se non reagisce, accetta. Ed è una faccenda, si sarà capito, del tutto maschile. Non ci sono donne «vili» fino ai tempi moderni, semplicemente perché non appartenevano a questo universo. Anzi, come ricorda Montaigne, una norma ateniese condannava i disertori a essere mostrati per tre giorni alla folla in abiti femminili. Le loro vesti «erano percepite come un chiaro simbolo di abbassamento, di degradazione».
Si è vili – o coraggiosi, e infatti il libro deve in parallelo affrontare la storia dell’idea di coraggio - nell’ambito di un conflitto, che non è necessariamente la guerra. Può essere ad esempio la dinamica di corte, quella dei «cortigiani vil razza dannata» cantati da Rigoletto (vili e avidi di denaro: «A voi nulla per l’oro sconviene»), o come li descrive il barone D’Holbach nel Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei Cortigiani, valorosi in battaglia e servili a corte. E può essere, va da sé, quella di coppia, dove la taccia di viltà è uno dei momenti cruciali nella dinamica amorosa (o del disamore).
A ben guardare, uno schema analogo si estende non solo ai totalitarismi novecenteschi ma anche alle grandi organizzazioni aziendali contemporanee, dove convivono per l’appunto gusto del rischio, temerarietà o determinazione, ma anche carrierismo e servilismo: forme di viltà - e avidità da cortigiani - più subdole, molto attuali anzi dilaganti, generatrici di inefficienza e burocrazia, che poco hanno a che vedere, poniamo, con una delle più sublimi della nostra storia, nel cuore del mito cristiano. È quella di Pietro, quando rinnega tre volte Gesù prima che il gallo canti, divenendo, scrive Ortoleva, «codardo, bugiardo e anche spergiuro». Ma perché i Vangeli danno tanto spazio all’episodio vergognoso di una figura così importante? La risposta dello storico è che si infrange proprio qui proprio il canone dell’epica classica: la viltà è sì un baratro, ma da cui si può risalire; e ci riguarda tutti.
Una sorta di Pietro laico è del resto in uno dei più straordinari romanzi moderni dedicati alla viltà. Lo storico cita il Dostevskij delle Memorie del sottosuolo (come esempio di viltà maligna). Ma si potrebbe aggiungere quella eroica di Lord Jim, nel gran libro di Conrad (e nel film che ne fu tratto con Peter O’Toole). Il giovane primo ufficiale di una carretta del mare che trasporta pellegrini verso la Mecca si mette in salvo assieme al capitano, durante una tempesta, abbandonando i passeggeri al loro destino. Ma questo atto di viltà è destinato a segnarlo: cercherà di riscattarsi in ogni modo, non davanti agli altri ma davanti a sé stesso, rischiando la vita e infine perdendola per un gesto di generosità. Come un Pietro laico avviato al martirio.