Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  marzo 17 Mercoledì calendario

Perché adoperimo tutte queste parole inglesi

“Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, disse Mario Draghi quel giorno (era il 12 marzo) al centro vaccinazioni di Fiumicino. Aveva appena pronunciato (perfettamente, senza “choc” simil renziani) “smart working” e “baby sitting” e a quel punto aveva smesso di leggere il testo che gli era stato preparato, aveva alzato lo sguardo verso gli astanti e pronunciato la frase fatidica che di lì a qualche minuto sarebbe diventata il titolo – giubilante – di tutti i siti di news. Allora, “chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”: ma chiediamocelo davvero e proviamo a darci una risposta che vada oltre il legittimo sovranismo digitale dell’Accademia della Crusca, da qualche secolo impegnata nella meritoria difesa della nostra bellissima lingua. Perché non è solo pigrizia, che a volte c’è; non è solo sciatteria, che non manca mai; e non è neppure per darci un tono che usiamo “tutte queste parole inglesi”. Il motivo fondamentale è che da troppo tempo ormai abbiamo smesso di innovare, di inventare cose, e visto che nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza della cose, avendo smesso di inventare cose, non abbiamo neanche coniato i relativi nomi. È dannatamente semplice, la risposta. 
Prendiamo Internet: inizialmente si chiamava ArpaNet perché era la rete che collegava alcuni computer della agenzia governativa americana Arpa; poi è diventato Internet, che letteralmente voleva dire “rete di reti” perché collegava reti diverse, ma in italiano è rimasto Internet. Venti anni più tardi il world wide web di Tim Berners Lee non lo abbiamo tradotto “la grande ragnatela mondiale”, ma semplicemente il web o www. Lo smartphone secondo la Crusca dovremmo tradurlo come “telefono intelligente”, ma non è affatto intelligente, sarebbe una forzatura chiamarlo così. Un insulto alla nostra intelligenza. Ed è vero che Authority si può tradurre come Autorità (del resto non le hanno mica inventate negli Stati Uniti); ma privacy in italiano cosa diventa? Correttamente, “protezione dei dati personali”: appunto, meglio privacy (che peraltro come diritto nasce, questo sì, negli Stati Uniti, alla fine dell’800, con le prime macchine fotografiche per tutti). Allo stesso modo e-book teoricamente andrebbe tradotto come “libro elettronico”, così come  e-commerce è il  “commercio elettronico”, ma in questo modo si dà una importanza all’elettronica che nella percezione comune non esiste. La startup (tutto attaccato, senza trattino) non è “l’inizio di qualcosa”, ma una nuova azienda che punta sull’innovazione tecnologica per provare a crescere in fretta, come lo vogliamo dire in italiano? Startup, è facile. Similmente le app sono app, non sono “applicazioni”, e lo streaming non sarà mai “un flusso multimediale di dati audio e video”, ma semplicemente lo streaming. 
Il fatto è che tutte queste cose non le abbiamo inventate, le abbiamo adottate, parole comprese. Non è sempre stato così: gli inglesi e gli americani non si scandalizzano di chiamare pasta e pizza alcuni cibi, il tiramisù è intraducibile, mica lo chiamano “get-me-up”, lo ordinano al ristorante proprio come noi (così come a tavola il MontBlanc non è il Monte Bianco ma un dolce francese con molta panna). Non c’è solo la cucina ovviamente tra i nostri prima: il teatro, la musica classica e l’opera sono caratterizzati da moltissime parole italiane a cominciare dal “bravo” con cui il pubblico saluta gli interpreti, primo fra tutti il “maestro” (in italiano); e lo stesso per l’architettura (baldacchino, belvedere, campanile, chiaroscuro…). Del resto la Banca e la Posta, che sono nate in Italia, in inglese si chiamano Bank e Post mica per caso.
Insomma, volendo provare a dare una risposta garbata e costruttiva al presidente del Consiglio alla domanda “chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, dovremmo dire: perché nel nuovo mondo, digitale e connesso, siamo follower, oppure, in italiano, inseguitori. Abbiamo il futuro davanti e non lo raggiungiamo mai. Ma questo Draghi lo sa bene. Dobbiamo tornare leader, o comunque vogliate dirlo in italiano (non “capi” per favore). Dobbiamo farlo “a tutti i costi” (o “whatever it takes”, ma questa è una citazione, in inglese ci sta).