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 2021  marzo 17 Mercoledì calendario

In America, per coprire i buchi di bilancio, si vendono l’arte

Per coprire i buchi di bilancio e superare la crisi da pandemia i musei americani venderanno opere d’arte? Dal 17 al 19 marzo, questo tema verrà discusso in un convegno online alla Syracuse University (NY), Deaccessioning after 2020. Nel costume museale americano, de-accessioning (‘cancellare dagli inventari’) è pratica spesso seguita per liberarsi di opere scomode (per esempio falsi), o ritenute di scarso valore, o anche per realizzare rapidamente somme importanti per comprare qualcos’altro.
Esempio classico fu la vendita in blocco della collezione numismatica del Metropolitan Museum per acquistare (1973) lo spettacolare cratere di Sarpedonte, un grande vaso da simposio dipinto ad Atene dal ceramografo Eufronio verso il 515 a.C. Vendere per comprare era dunque, secondo il Met, un buon investimento, ma nel 2006 il museo riconobbe che il vaso era stato esportato illegalmente, e lo restituì all’Italia. Più recentemente, nel 2011 il Museum of Fine Arts di Boston ha venduto all’asta otto dipinti di Monet, Gauguin, Renoir e altri per “completare le proprie raccolte” con un quadro di Caillebotte, un artista entrato tardi nell’empireo dei mercati.
Ma ora le vendite sono figlie dell’emergenza Covid, che spinge a ripensare la politica museale. Il museo di Baltimora ha annunciato l’intenzione di vendere tre dipinti, fra cui un’Ultima Cena di Andy Warhol (da Leonardo), “per diversificare le proprie raccolte”, cioè acquistare opere di artisti afroamericani o di donne. Il ricavato della vendita era previsto in 65 milioni, ma di fronte alla valanga di proteste il museo ha fatto marcia indietro. Anne Pasternak, direttrice del Brooklyn Museum che ha già venduto opere di Cranach, Monet e Miró, sostiene che vendite come queste sono necessarie per creare un fondo di riserva (endowment) i cui interessi possano coprire i costi d’esercizio. Un articolo del Washington Post (8 marzo) dà queste e altre notizie, a cominciare dalla più eclatante: il Metropolitan Museum ha appena approvato una norma interna secondo cui potrà vendere opere delle proprie collezioni e usare il ricavato per gli stipendi dei dipendenti e altre spese di esercizio. In pochissimi giorni, un appello che chiede al museo di “respingere qualsiasi tentativo di vendere l’arte che il Met detiene”, poiché si tratta di un bene pubblico, è stato firmato da oltre 25.000 cittadini.
La stessa AAMD (Association of American Museum Directors), che fino a un anno fa raccomandava di limitare le operazioni di deaccessioning, ora autorizza i musei a “usare gli introiti dalle vendite di opere delle proprie collezioni permanenti per coprire i costi di mantenimento del museo”. Ma a questa decisione si stanno opponendo in molti: non solo esperti del ramo come Thomas Campbell che ha diretto a lungo il Metropolitan, ma soprattutto gruppi di cittadini, come quelli che hanno firmato la petizione a New York.
È istruttivo seguire queste discussioni da un Paese come l’Italia, dove la tradizione e la legge vietano operazioni come queste. Ma la reazione di un numero crescente di cittadini mostra che la sensibilità civile degli americani si può evolvere in un senso più “europeo”. Quel che ha diviso la mentalità di chi opera nei musei americani dai loro colleghi italiani e che ha trasformato molti negoziati in un dialogo fra sordi, è il peso relativo di due fattori-chiave nella costituzione delle raccolte museali: il contesto e il mercato. I musei italiani nascono dal territorio, o dalle istituzioni del territorio: agli Uffizi troviamo in prevalenza opere fiorentine, o del granducato di Toscana, o che appartennero alle collezioni granducali. A questa regola ci sono eccezioni, dove la cornice contestuale è più complessa (Brera non si capisce senza la museografia napoleonica) o raccolte private, anch’esse frutto di specifiche coordinate di cultura e di gusto: un’altra componente, anch’essa importante, del contesto storico. Se possibile ancor più intensa e vitale è la nozione di contesto archeologico: i materiali di scavo prendono significato solo dalla loro reciproca relazione. Anzi, riferendosi a civiltà la cui documentazione è fortemente lacunosa, perdono gran parte del loro significato se strappati al contesto di rinvenimento.
Il mercato è sempre stato un’altra componente essenziale del collezionismo, ma nei nostri musei la componente contestuale è dominante. I musei americani sono di formazione assai più recente, dovuta al mercato e non al contesto d’origine delle opere. Quando possono provare che le opere in loro possesso furono acquisite senza violare le leggi del paese d’origine, i musei americani le mantengono e le studiano benissimo, eppure l’ipotesi di deaccession mina l’integrità delle loro raccolte. Da alcuni decenni gli archeologi americani sono stati i primi in the profession a riconoscere (anche se non sempre) il valore insostituibile dei contesti d’origine: in tal senso andò negli anni Novanta del secolo scorso la nuova acquisition policy del Getty, che dopo aver ‘pescato’ nel mercato senza troppi scrupoli, vietò a se stesso di acquistare qualsiasi opera antica di provenienza non documentata.
Perciò la vera notizia non è la deaccession di opere d’arte, legata o no alla pandemia in corso, quanto il successo di chi protesta, come la raccolta di firme di cittadini che (scrive il Washington Post) “credono nell’inviolabilità delle collezioni pubbliche”. In altri termini, un segmento importante della società civile sta faticosamente conquistando una cultura della conservazione contestuale che somiglia a quella che dovrebbe essere la nostra. Dovremmo esserne più consapevoli, nel Paese dove è nata la cultura della tutela contestuale e territoriale del patrimonio, proclamata al massimo livello dalla Costituzione, ma che sta ora allentandosi per carenza di personale e di risorse. Dall’Italia veniva Antonio Canova, che secondo fonti contemporanee osò tener testa a Napoleone ricordandogli che “il popolo romano ha un sacro diritto sui monumenti scoperti nelle viscere di Roma, prodotto intrinsecamente connesso a quel suolo, per modo che né le famiglie nobili né lo stesso Papa possono vendere questo retaggio del popolo re”. Riportate da un diplomatico francese, Alexis-François Artaud de Montor, queste parole condensano il nesso genetico e civile fra opere d’arte, territorio e sovranità popolare. Un tal principio finirà col penetrare nella democrazia americana? E riusciremo a tenervi fede noi italiani, ridando vita alle nostre stremate strutture della tutela?