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 2021  marzo 17 Mercoledì calendario

Come nasce un eroe (Robin Hood)

In origine Robin Hood era un uomo qualunque. Nei primi poemi veniva descritto come uno yeoman, termine dal significato mutevole che poteva riferirsi ora a un lavoratore agricolo esperto come un mugnaio ora a un piccolo proprietario terriero. Ma in tutte le definizioni lo yeoman era un cittadino comune, privo di qualsiasi rango ufficiale. La solidarietà di Robin per gli oppressi fu chiara fin dall’inizio, come del resto la sua insofferenza per i preti e il clero, il suo rispetto per le donne e la sua opposizione allo sceriffo di Nottingham. Alcuni personaggi dell’allegra brigata appaiono in forma prototipica: Little John (un protocompagno), Much il figlio del mugnaio e Will Scarlet (benché in origine il suo nome fosse meno generico, di solito Scarlock o Scathelock). Dapprincipio Robin non aveva idea del malgoverno del Principe Giovanni o della grandezza di Re Riccardo: nelle prime versioni la monarchia non viene citata affatto (l’opposizione locale a Nottingham era sufficiente ai fini narrativi) e in una in particolare il re al potere è chiamato Edoardo, non Riccardo.
Poi arrivarono centinaia di anni di modifiche, che nel complesso rappresentano l’esempio perfetto delle influenze a cui è sottoposta una storia a mano a mano che le varie parti interessate vi mettono il becco. Il racconto esercitava un’attrattiva travolgente e innegabile, pertanto l’establishment non poté sopprimerlo. Come avrebbe fatto qualsiasi professionista del mondo, lo adattò. Lo ambientarono stabilmente durante il regno di Giovanni, a una distanza storica che ritennero abbastanza sicura.
Non minava l’idea della monarchia in sé, anzi, forse la rinforzava comunicando il messaggio subliminale che proprio l’assenza del vero sovrano fosse stata la causa di tutti i guai. Poi arrivò la richiesta di altri personaggi da parte del pubblico. Oggi la riceviamo in modo analogo al telefono da editor e produttori: potrebbe esserci un interesse amoroso?
A quel tempo i narratori dovevano aver colto una certa inquietudine tra gli ascoltatori, perciò aggiunsero Lady Marian. Poi ancora, come fanno i narratori di storie di tutto il mondo, si resero conto di aver bisogno di una figura comica. Inventarono Fra Tuck. E così via.
L’establishment cambiò soprattutto Robin stesso. Prima lo trasformò in un forte sostenitore di Re Riccardo (vedi sopra: salvaguardare la monarchia gettando Giovanni in pasto ai lupi), dopodiché gli fece risalire a poco a poco la scala sociale a causa di quella che pare fosse una pressione permanente e irresistibile a cui erano sottoposte tutte le storie britanniche, reali o di fantasia. Presumo fosse una questione di classe. Come Shakespeare: un genio simile non può essere stato uno zoticone delle Midlands, quindi era davvero il Conte di Oxford. Nel caso di Robin, un inglese tanto forte e amato non poteva essere stato un semplice yeoman. Perciò alla fine del XVI secolo era diventato il Conte di Huntingdon. Il pubblico assecondò l’idea consolidando in tal modo i tratti sostanziali dell’eroe popolare: una persona di rango, emarginata per qualche motivo, che infrangeva le regole per un fine giusto.
Queste caratteristiche basilari erano state preannunciate tempo prima e sarebbero state riprese in futuro. Ricordo per esempio di aver letto a scuola in latino il mito di Teseo narrato da Ovidio. Tornando a casa sull’autobus leggevo Il Dottor No di Ian Fleming. Ebbene, mi accorsi che stavo leggendo la stessa storia duemila anni dopo. Un uomo di rango (un principe, un comandante della Royal Navy), non proprio emarginato ma criticato e tollerato a stento, combatte contro un avversario grottesco in un rifugio sotterraneo segreto con l’aiuto di una donna che sta dall’altra parte (Arianna, Honey Ryder) e della tecnologia (la matassa di filo, l’arsenale di q) per tornare a casa e ricevere un’accoglienza mista. Lo schema si è rivelato duraturo.
Io stesso l’ho usato inconsciamente quando ho iniziato a scrivere. Mi serviva un personaggio principale ma ritenevo che pensare troppo alla sua descrizione avrebbe significato privarlo di ogni incisività, perciò scrivevo seguendo l’istinto, ovvero basandomi su tutto ciò che avevo letto e assorbito a livello subliminale. E difatti Jack Reacher è risultato essere un uomo di rango (un maggiore, diplomato a West Point), emarginato dalla società tradizionale (seppur per scelta volontaria, per mano sua) che fa giustizia in maniera brutale, al di là delle regole convenzionali. (In maniera molto brutale. Ho letto online una presentazione sintetica della serie dedicata a Reacher in cui si affermava: «È una serie poliziesca in cui il detective commette più omicidi di quanti ne risolva».) In quanto tale Reacher si inseriva alla perfezione nella tradizione dell’eroe popolare, in particolare nella sottocategoria dei cavalieri erranti che sembra esercitare un’attrattiva universale, come accade per esempio con le leggende giapponesi dei ronin, in cui un samurai ripudiato dal proprio padrone è condannato a vagare per la terra facendo del bene. Per me il tropo era così forte da prevalere sul senno e sul realismo quotidiano, nel senso che le esperienze sul campo implicite nel passato di Reacher sono quelle di un sottufficiale, non di un ufficiale, e quasi sicuramente non di un diplomato di West Point. Ma l’inconscio mi ha portato verso il mito del cavaliere errante, e un cavaliere errante doveva essere tanto per cominciare un cavaliere, dunque Reacher era un maggiore. Gli addetti ai lavori sono più che consapevoli della discrepanza, tuttavia apprezzano ugualmente la narrazione, il che a mio parere è la prova dell’efficacia di questo antico schema narrativo evolutosi nel tempo.