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 2021  marzo 16 Martedì calendario

Il silenzio delle città

Di nuovo come un anno fa. Niente come un anno fa.
La prima cosa a essere tornata è il silenzio. Non è uguale. Il silenzio della clausura 2020 era quello della prima esecuzione di 4’33", il pezzo composto da John Cage nel 1948. Il debutto avvenne a Woodstock, il 29 agosto del 1952. Il pubblico vide il pianista, David Tudor, abbassare e sollevare il coperchio della tastiera in corrispondenza dell’inizio e della fine, ma non lo sentì produrre alcun suono. Quando alla fine dei 4 minuti e 33 secondi il musicista si alzò e s’inchinò, dalla platea giunse inizialmente qualche risata nervosa, poi un applauso timido, al quale se ne unì un altro, fino a generare un’ovazione. Dalla replica in poi fu un’altra cosa. Il responso poteva essere entusiasta o critico, sincero o di maniera: applausi o fischi, era comunque un’altra cosa. Un anno fa siamo stati, di fronte al silenzio, il pubblico della prima di 4’33".
Sorpresi, confusi, incapaci di ragionare freddamente di fronte a una cosa inedita e spiazzante. Non abbiamo avuto la forza di ascoltare i rumori permanenti, non abbiamo colto il senso delle cose che continuavano a produrre suoni non sotto ma dentro il silenzio, definendone l’impossibilità. La sola reazione che ci è venuta è stata quella di restare fermi e generare noi i suoni, noi la sgangherata musica al posto di quella negata. Così abbiamo cantato, fatto rumore, condiviso il timore più grande: sul cartellone era annunciato
4’33", ma se poi fosse durato di più? Se al pianista silente si fossero uniti il cantante muto, l’orchestra senza strumenti? Se ogni compositore, in ogni teatro al mondo, avesse imposto il tacet? Se la musica si fosse fermata? Oggi, davanti al teatro chiuso, nella calma artificiale delle zone rosse, siamo il pubblico delle rappresentazioni successive. Sappiamo già quel che accadrà e lo viviamo con più fastidio che stupore. Sappiamo quanto durerà, ma ci atterrisce un’altra idea: che la musica possa diventare un intervallo tra le ripetute esecuzioni del nulla. Per questo alle risate nervose si sono sostituite imprecazioni sibilate o insofferenze spettacolarizzate e all’ovazione dai loggioni qualche fischio dai balconi. Tutto può produrre un’eco, ma non il silenzio.
La seconda cosa a essere tornata è il vuoto. Non inedito. Poche auto e molti controlli sulle strade. Serrande abbassate. Vetrine che custodiscono promesse mancate come le uova di cioccolato della seconda Pasqua feriale, ma quest’altra perde, oltre alla festa, anche la sorpresa. Nessuno neppure sui campi da tennis, ultimo sport a smettere, se anche venti metri di distanza vi sembran troppi.
E’ già stato fotografato, descritto, analizzato questo vuoto. Quel che non si può rappresentare è il sottovuoto. Sono i sentimenti repressi che covano dietro la disponibilità all’ulteriore obbedienza, non visibili, sotto pressione, tappati da quel che resta di un sigillo sul quale è più pallida e condizionata la parola "fiducia". Non sarà un caso che in molti Paesi ci sia stato un cambio della guardia (attraverso un’elezione o in altra maniera) rispetto al governo che ha affrontato la prima ondata e disposto la prima clausura. E’ stato un po’ come quando la malattia non passa o si ripresenta: «E se sentissimo un altro dottore?». Ovviamente con migliori referenze, un curriculum che allude all’infallibilità, conclamata stima tra colleghi e pazienti. L’unico vuoto inammissibile in questa circostanza sarebbe il vuoto di potere. L’unica domanda che si ha paura a porsi è questa: se poi fallisce pure questo, che cosa ci resta? La replica della replica, l’apprendista stregone o il caos? Nei serbatoi, ma anche nelle comuni vasche e lavandini il troppopieno è quell’apertura che impedisce al liquido di straripare, un meccanismo per evitare danni. In questa realtà il "troppovuoto" è l’indicatore di un danno che potrebbe prodursi se le condizioni non cambiano, se la disgregazione non viene attenuata, se non si riprendono forme di coesione, se lo spettacolo che, d’accordo, non poteva continuare, non riprende.
La terza cosa è la solitudine. Un anno fa venne accolta come una tregua e un’occasione. Il momento per stare con se stessi e affrontare situazioni a lungo rinviate. Chi poteva trarne beneficio lo ha fatto. Per tutti gli altri, ripetere non serve. Non vediamo le espressioni di chi "resta a casa", una frase che ha perso l’hashtag e la spinta motivazionale. Vediamo quelle dei pochi che camminano o corrono lungo il perimetro delimitato, fanno la spesa, sempre rigorosamente soli. Un anno fa ostentavano una sorta di fierezza mista al timore, affrontavano un pericolo sconosciuto rivendicando lo spazio concesso. Oggi hanno sguardi diversi, sconsolati. In loro, come nei ristoratori che hanno eretto barriere di plexiglas o nei gestori di circoli che hanno sanificato gli impianti, traspare la preoccupazione che il sacrificio possa non bastare.
Di positivo è che i ricorsi (più dei corsi) evitano il panico, l’accaparramento, l’ipotesi apocalittica. Di negativo c’è che la data della liberazione si sposta come l’orizzonte. Il nome AstraZeneca ha cambiato le opinioni di alcuni sui vaccini. Il passo di chi correva loro incontro è rallentato. Incrociarsi indossando la mascherina un anno fa determinava un cenno di riconoscimento come fra proprietari della stessa auto, di uguale colore, in corsie affiancate. Ora gli occhi si abbassano e si tira avanti, ognuno verso la propria uscita di sicurezza, avendone la mappa e in essa confidando. Nella fase 1 (e non sappiamo più con certezza a quale siamo adesso) chi non apparteneva ad alcune zone geografiche specifiche era difficile conoscesse direttamente una vittima. Ora nessuno è escluso. In ordine di distanziamento: parenti, amici, personaggi famosi. E’ tutto tangibile. Centomila non possono essere nessuno. Siamo ancora sulla stessa barca, ma le prime discussioni sull’ordine di vaccinazione hanno aperto la porta a una possibile corsa alle scialuppe. A frenarla è la diceria che qualcuna sia fallata.
La quarta cosa è il tempo. Un anno è trascorso. Le stesse date si ripetono riproponendo situazioni analoghe. Chi non è stato malato non capisce e quindi non apprezza il miglioramento, lo degrada a prospettiva che non può essere datata. Vive una personale ricaduta che toglie energia perché annulla l’illusione di un progresso lineare.
Una delle battute più ricorrenti, tornando alla musica, è la necessità di aggiornare le Quattro stagioni di Vivaldi: clausura, clausura, estate, clausura. Se il potere si consolida cambiando il passato (e riscrivendolo come l’esperienza che non è stata, per proclamarsi salvifico), al popolo dei trascorsi poco importa, si concentra sull’impellenza di cambiare il futuro. Pronunciamenti serali e perfino pubblicità televisive avevano fatto credere che la ripresa fosse dietro l’angolo. Ripartire è stato il verbo più inflazionato quando si è intravista l’uscita dal tunnel. La nuova galleria non era nelle previsioni generali. La vita è concepita e raccontata come un fiume, difficilmente carsico. E’ complesso ora apprendere che l’aspettativa di vita è diminuita di quasi due anni e insieme sottomettersi alla richiesta di una nuova frenata. I giovani vedono cancellato un periodo che non potranno neppure rimpiangere. I vecchi uno che ha la micidiale importanza delle cose estreme. Tutti ci siamo comportati come il protagonista di quel film di Spike Lee intitolato "La venticinquesima ora", il giovane uomo che si appresta ad andare in prigione per scontare una lunga condanna e vive l’ultima notte di libertà con fame, ansia e tardiva consapevolezza.
Cerca di prendersi tutto il piacere possibile, ma lo guastano la consapevolezza della scadenza e l’incertezza per quel che gli accadrà. Tenta di scaricare la colpa sul resto del mondo, ma dovrà riconoscere che è solo sua. Quando guardiamo le fotografie degli assembramenti dell’ultimo week-end dovremmo ingrandire, ingrandire e ci troveremmo la nostra immagine tra la folla. Il personaggio del film intravede la soluzione in un intervento paterno, un atto taumaturgico che lo conduce, appunto, fuori dal tempo, in una venticinquesima ora dove tutto ridiventa possibile e non ci sono più costrizioni.
Ovviamente quell’ora non può esistere. Come ogni illusione, non è liberatoria. Non resta che vivere nella realtà e nel presente, accettandoli. Credere nelle soluzioni è il modo migliore per avvicinarle. Va ammesso che non è il momento più adatto per risultare convincenti, ma è il solo concesso e questo sì non avrà repliche.