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 2021  marzo 16 Martedì calendario

La sovversiva Eleanor Roosevelt

’Fbi di J. Edgar Hoover la spiò quasi ossessivamente aprendo su di lei un fascicolo che progressivamente si arricchì di tremila pagine. Eleanor Roosevelt (1884-1962) fu nipote di un presidente degli Stati Uniti (suo padre, Elliott, era il fratello di Theodore Roosevelt) e moglie di un altro capo di Stato, quello che guidò l’America alla vittoria contro il nazismo, Franklin Delano Roosevelt (1882-1945, in sigla Fdr). Sicché al momento delle nozze, nel 1905, non fu costretta a cambiare cognome. Per parte di madre, Anna Livingston Ludlow Hall – scrive Raffaella Baritono in Eleanor Roosevelt. Una biografia politica (il Mulino) —, apparteneva «a una delle famiglie più in vista della New York ottocentesca». E fu per lei del tutto naturale essere fin da giovanissima di idee progressiste. Ciò che, appena sposò Fdr, attirò su di lei le attenzioni dei federali. Nel rapporto viene definita volta per volta «nigger-lover», «Lenin in skirts», «Stalin in petticoats», «la persona più pericolosa degli Stati Uniti». Sulla sua testa il Ku Klux Klan mise addirittura una taglia. Nel 1937 a un sindacalista che aveva tentato di organizzare i minatori di Bessemer in Alabama ed era sospettato di essere comunista, fu chiesto se avesse rapporti con la moglie del presidente, «implicitamente associando il nome della first lady al Partito comunista americano». Partito peraltro legale in quello Stato.
Lei si difese ogni volta scrivendo a Hoover lettere dal tono finto ingenuo, talvolta sarcastico. 
Perché tanto accanimento? Fu la prima first lady, risponde la Baritono, «a conquistare visibilità pubblica con un’agenda politica spesso più a sinistra di quella del marito». La prima a tenere con regolarità conferenze stampa per giornaliste donne (dalle quali erano banditi i temi politici, ma non quelli a carattere «sociale»). La prima a tenere ogni giorno una rubrica giornalistica che, nel momento di maggior successo, venne pubblicata su più di trecento quotidiani. La prima a intervenire in trasmissioni radiofoniche (e televisive, negli ultimi 15 anni di vita). La prima a compiere da sola viaggi, i goodwill tour, che avevano evidenti obiettivi politico-diplomatici. La prima ad essere iscritta a un sindacato. La prima moglie a pronunciare, nel 1940, un discorso alla Convention del Partito democratico. La prima ad avere – dopo la morte del marito (1945) – incarichi ufficiali di rilievo, come quello di membro della delegazione americana all’Onu. Naturale che Hoover la tenesse d’occhio. Del tutto stravagante che la considerasse filocomunista. 
Il suo «scopritore» fu Louis Howe, geniale consigliere politico del marito. Che morì nel 1936 e fu sostituito da Harry Hopkins, della cui influenza su Fdr Eleanor fu, almeno in un primo periodo, gelosa. Fin dall’inizio della sua attività di pubblicista si disse certa che le donne mai avrebbero voluto «una donna come presidente». Tesi che ribadì anche dopo la morte del marito.
Se si vuole identificare una data in cui l’impegno di Eleanor Roosevelt divenne manifesto, si deve risalire al 1927. In occasione di un incontro promosso dal National Council of Women of the United States, la moglie di Fdr – che l’anno successivo sarebbe stato eletto governatore dello Stato di New York – conobbe quella che giustamente la Baritono definisce «una delle figure più significative del femminismo afroamericano»: Mary McLeod Bethune. Al pranzo ufficiale nessuna delle donne presenti voleva sedersi accanto alla Bethune. Eleanor e la madre di Fdr, Sara, presero posto a fianco di quella donna leggendaria che nel 1935 avrebbe fondato il National Council of Negro Women. Fdr fu assai più cauto nell’affrontare il delicatissimo tema dei rapporti tra bianchi e neri; quando nel 1932 Walter White, importantissimo leader della National Association for the Advancement of Colored People, inviò ai due candidati alla presidenza un questionario sulle loro intenzioni in merito alla battaglia per i diritti degli afroamericani, decise, assieme al rivale, di non rispondere. 
Il 1933, quello in cui Roosevelt entrò alla Casa Bianca, venne ribattezzato «anno della corda insanguinata». Gli afroamericani linciati in quei dodici mesi furono 28 (il peggiore per numero di neri trucidati, dopo il 1910 quando gli uccisi erano stati 80 e il 1919 allorché ne furono impiccati 78). Il Partito comunista americano proprio allora prese a cuore la causa dei neri e avviò una campagna di denuncia del razzismo. Walter White immediatamente provò a prendere le distanze da queste manifestazioni dei comunisti e fece appello a Eleanor perché gli desse una mano. Lei gli disse di non potersi impegnare in prima persona ma lo invitò a prendere un tè da suo marito.

L’incontro – ricostruisce Raffaella Baritono – non andò bene. Il presidente «fece presente a White che i democratici del Sud avevano il controllo delle principali commissioni parlamentari», di conseguenza se lui si fosse schierato a favore di una «legge anti-linciaggio» loro avrebbero bloccato qualsiasi iniziativa necessaria a «far uscire l’America dal collasso economico». Poi chiese bruscamente a White: «C’è qualcuno che vi sta aizzando? È stata mia moglie?» White, imbarazzato, restò in silenzio. Roosevelt, spiega Raffaella Baritono, «pur tollerando e a volte favorendo le posizioni della moglie, in questo caso avvertiva tutta la pericolosità di quella proposta». Proposta che avrebbe «messo in discussione» l’intero «impianto riformista». Tra l’altro il suo addetto stampa, Steve Early, sosteneva le posizioni del Sud e in quell’occasione disse d’aver trovato White «eccessivamente arrogante». Eleanor gli rispose che sì, forse White era «ossessionato dal tema del linciaggio». Ma, aggiunse, «se io fossi una persona di colore, avrei la sua stessa ossessione».
Nella primavera del 1938 la moglie del presidente ospitò alla Casa Bianca un incontro del National Council of Negro Women «contro le pratiche discriminatorie nella sanità, nelle scuole, nei posti di lavoro». In novembre si recò a un convegno a Birmingham in Alabama dove erano radunati bianchi e neri. Lei ostentatamente andò a sedersi dalla parte dei neri. Uno dei poliziotti «le fece cenno con un tocco sulla spalla per dirle che doveva spostarsi in quella riservata ai bianchi», come imponevano le leggi segregazioniste di quello Stato. Lei per tutta risposta mise la sua sedia al centro, equidistante da bianchi e neri. E, da quel momento, quando prendeva parte a manifestazioni negli Stati segregazionisti, si comportò sempre così. La stampa conservatrice evitò di commentare il gesto, ma rilevò che in alcuni interventi dei relatori a Birmingham si potevano individuare «tracce di comunismo».
Nel 1939 la Howard University School of Music chiese all’associazione femminile patriottica Daughters of American Revolution l’autorizzazione a usare il loro auditorium – il Constitution Hall – per ospitare il concerto di una famosissima contralto afroamericana, Marian Anderson, la quale tornava negli Stati Uniti dopo un tour in Europa di grande successo. L’associazione rifiutò. Eleanor si dimise dalla Daughters of American Revolution e impose al marito di invitare la Anderson in occasione di una visita dei reali britannici. Per il concerto alla fine venne concesso il Lincoln Memorial e l’evento ebbe una risonanza enorme.
Poi fu la Seconda guerra mondiale ed Eleanor si schierò decisamente, ben prima di Pearl Harbor, dalla parte dell’intervento contro la Germania nazista. Ma anche quando, dopo il dicembre del 1941, il Paese fu in guerra, le tensioni razziali non diminuirono. Nel 1942 si registrò quella che Raffaella Baritono definisce «una campagna di vero e proprio astio (se non odio)» contro la moglie del presidente. Faceva leva sui «risentimenti delle donne bianche che si lamentavano di presunti Eleanor Club, formati, con il nome della first lady, da domestiche afroamericane che chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro». Una notizia del tutto falsa.

Eleanor si rivolse a J. Edgar Hoover chiedendogli di indagare su chi avesse messo in giro la falsa notizia e il capo dell’Fbi fu costretto a riconoscere che la storia di quei club era senza fondamento. Ma nel report dell’Fbi è scritto che, poiché le domestiche nere avevano accresciuto la loro forza contrattuale, «era più che logico che si attribuisse la colpa a qualcuno o a qualcosa». Qualcuno che, per motivi non meglio identificati, finiva per essere identificato con la moglie di Roosevelt, considerata in certi ambienti «la persona più pericolosa, oggi, negli Stati Uniti». E quell’«oggi», incredibile a dirsi, era riferito ad un momento in cui l’America – ripetiamo – era impegnata nella Seconda guerra mondiale. 
Nel giugno del 1943 Detroit fu teatro di una rivolta dei neri che si estese anche ad altre città degli Usa. Diecimila bianchi, con la copertura della polizia locale, attaccarono i quartieri afroamericani provocando 25 morti e centinaia di feriti. Ancora una volta la Bethune, che aveva levato una voce di protesta, fu accusata di essere «comunista». Eleanor le scrisse stigmatizzando sia i comportamenti della polizia sia le accuse di «comunismo». Un giornale locale del Mississippi puntò il dito accusatore contro la moglie del presidente: «Le sue mani sono insanguinate, Mrs Eleanor Roosevelt… Più di ogni altra persona, lei è moralmente responsabile per quelle rivolte razziali che a Detroit hanno causato due dozzine di morti».

Nel 1932 Eleanor protestò contro l’inserimento all’interno dell’Economy Act di una clausola, la cosiddetta «Married Person Clause», che, in nome dell’emergenza economica post crisi del 1929, prevedeva il licenziamento di uno dei due impiegati pubblici qualora fossero uniti in matrimonio (su 1603 lavoratori che immediatamente persero l’impiego, tre quarti furono donne). Donne che, quando il dispositivo nel 1937 fu cancellato, non furono riassunte. Nella seconda metà degli Anni Trenta, contro il razzismo antisemita hitleriano, la moglie di Roosevelt si batté inoltre per l’approvazione di una legge che consentisse a ventimila bambini ebrei tedeschi di essere accolti da famiglie americane. La legge, però, non fu approvata.
Il libro riferisce anche di sue iniziative meno virtuose. Nel 1939, ad esempio, influenzata dalla ministra del lavoro Frances Perkins e dalla moglie del ministro del Tesoro Henry Morgenthau, avversò la nomina della riformatrice Josephine Roche a presidente della Federal Security Agency.
Dopo la morte del marito, il nuovo presidente Truman la nominò membro della delegazione americana alla prima Assemblea delle Nazioni Unite. Fu messa in imbarazzo quando un suo collaboratore, Alger Hiss, venne accusato di essere una spia. Appoggiò risolutamente Truman nella guerra di Corea per «fermare l’aggressione comunista». Eleanor sarà una dei pochi esponenti liberal a prendere posizione, fin dalla fine degli Anni Quaranta, contro la crociata anticomunista di Joseph McCarty. Ma imputò a John Kennedy di essere una pedina nel grande gioco di suo padre Joseph (che era stato quasi scopertamente filonazista) e soprattutto di non aver preso una posizione netta contro il maccartismo. Nel 1954 la rivista «Look» si offrì di finanziarle un viaggio in Unione Sovietica per servizi giornalistici in esclusiva mondiale. Ma lei rifiutò per la mancata concessione del visto ad un giornalista che avrebbe dovuto accompagnarla. In Urss andò poi nel 1957 e intervistò Nikita Krusciov, ma fu una visita che non ebbe storia. Prese posizione a favore di Kennedy (nella campagna presidenziale contro Richard Nixon) solo nel momento in cui il candidato si impegnò in modo inequivocabile per i diritti civili. Alla cerimonia inaugurale della presidenza, però, per evitare di sedersi accanto al padre di John Kennedy, prese posto nella zona riservata al corpo diplomatico.