La Stampa, 15 marzo 2021
Intervista a Nathan Englander
«Quando penso a quello che è avvenuto negli ultimi mesi a New York, e al modo in cui stata raccontato nel mondo l’impatto della pandemia, mi viene in mente la famosa battuta di Mark Twain: "la notizia della mia morte è ampiamente esagerata"». Così risponde Nathan Englander quando gli chiedo di parlarmi della sua città, che definisce «ferita, indebolita, e per molti mesi irriconoscibile, tuttavia sempre pronta a risorgere, come ha fatto con la Grande Depressione, l’Undici Settembre e l’Uragano Sandy». Aspetta un attimo prima di concludere: «Quando si parla di New York vengono alla luce sempre due elementi classici di chi non ama il nostro Paese: il sensazionalismo e l’antiamericanismo. Si colpisce la città simbolo deformando la realtà secondo quello che in realtà si vorrebbe».
Non si può negare però che nei mesi estivi dello scorso anno la città fosse in crisi.
«Infatti ho parlato di una New York irriconoscibile, per la convergenza di due elementi diversi: la pandemia e le rivolte successive agli atti di violenza della polizia nei confronti della gente di colore. In una città basata sulla potenza, l’energia e l’opportunità tutto ciò faceva un’enorme impressione e generava un senso di spaesamento. Ma si è trattato di un momento circoscritto, durante il quale gli elementi positivi e costitutivi della metropoli sono stati repressi ma mai annullati. Chi non ama l’America considera New York un’eccezione rispetto al Paese, ma analizzando con attenzione la sua realtà si vede che ne è invece la realizzazione e il compimento».
Quali sono le lezioni che ci lascia la pandemia?
«Sono infinite. Partirei dall’aver costretto chiunque a riflettere su cosa sia veramente necessario e indispensabile, e cosa invece superfluo: spero che impareremo a essere più grati per quello che abbiamo, e che ci sembra sempre insufficiente. Un secondo dato, ugualmente importante, è la riflessione sul senso di società, e conseguentemente il relazionarsi con gli altri: mai come in questo periodo ho capito l’importanza di pagare le tasse, affinché gli ospedali e i collegamenti possano funzionare. E mai come adesso ho avuto modo di riflettere su come molti abbiano un’idea assurda e aberrante della libertà: ho visto troppe volte una degenerazione di tale principio nell’egoismo, e la tragedia di questi mesi ci ha fatto assistere a momenti di nobiltà e meschinità di dimensioni bibliche».
Come cambieranno le nostre abitudini?
«La prima risposta, istintiva, mi porta a dire che, fin quando non avremo assoluta certezza che i vaccini funzioneranno, sarà impossibile immaginare ogni luogo di aggregazione, specie quelli per grandi masse come gli eventi sportivi o i concerti. Ma andando più in profondità penso che quello che cambierà realmente sarà la nostra attitudine mentale, e questo non è necessariamente un male. Non so se cambieranno drasticamente le nostre abitudini relative al viaggio o al lavoro di ufficio, so solo di essere un difensore accanito delle relazioni interpersonali, che hanno bisogno di una loro fisicità. Nel mio lavoro di scrittore, che avviene in solitudine, è molto importante quanto avviene nel momento in cui il libro si pubblica: io amo i reading, e il confronto con i lettori e mi manca terribilmente».
Il presidente Biden è la persona giusta per guidare la ripresa?
«Ha molti elementi che mi piacciono molto, a cominciare dalla calma e il buon senso. Ha trovato un Paese diviso e fatto a pezzi da Trump, dove i neonazisti manifestavano impuniti a Charlottesville e un’ordata di folli criminali ha invaso indisturbata Capitol Hill con la bandiera degli Stati Confederati. Di fronte a questa situazione spaventosa Biden sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale: già questo è un elemento estremamente positivo. Ha ridato dignità al Paese, e ciò è impagabile, in un Paese che sino a pochi mesi fa era impostato sul senso di vendetta e sulla divisione. Come scrittore io sono portato a idealizzare grandi idee come ad esempio la giustizia e l’equità sociale, ma so che la politica deve darsi obiettivi alti, sapendo che comunque i risultati non saranno mai al 100%».
Cosa pensa di Kamala Harris?
«È intelligente, preparata, carismatica e fonte di ispirazione per tutti: ha un grande futuro davanti a lei, e spero di vederla alla Casa Bianca».
Il suo giudizio su Trump è netto, tuttavia c’è qualche cosa che salva della sua presidenza?
«Onestamente no, per quanto mi sforzi: troppi morti per come ha gestito la pandemia, e troppo dolore. Per non parlare dei danni gravissimi rispetto ai cambiamenti climatici: è stato un presidente malvagio e instabile, i cui atti vanno ben oltre la negligenza. E se anche volessimo trovare qualcosa di positivo, ad esempio nella sua politica economica, io ritengo che ci troveremmo in una situazione simile a quella di un autista di un pullman che deve portare 30 bambini a scuola. Se durante il viaggio ne muoiono 29, non possiamo certo elogiarlo perché è il trentesimo è arrivato sano e salvo».
Cosa deve imparare l’America che a lui si oppone?
«Innanzitutto che la democrazia è un bene fragile. E poi che c’è un vasto elettorato che non aveva ascolto, e che Trump ha saputo interpretare: è importante non demonizzare quel mondo, ma capirlo senza snobismi».
Il cinema, per sopravvivere, ha dovuto cambiare formule di distribuzione, mutando inevitabilmente anche il linguaggio: cosa succede in letteratura?
«Partiamo dal cinema: in questi mesi ci siamo abituati ad apprezzare le serie televisive, alcune delle quali sono straordinariamente ben fatte, ma il cinema è il linguaggio delle immagini in movimento fruito da uno spettatore al buio su uno schermo luminoso più grande di lui assieme a molte persone sconosciute. Se manca uno di questi elementi, non si parla più di cinema, anche se quello che viene proiettato in televisione o su uno schermo dell’iPad è un film. Per quanto riguarda invece la letteratura, i lettori non sono diminuiti, e immagino cambiamenti inevitabili nei temi: non mi stupirei se nei prossimi anni ci trovassimo a leggere romanzi e racconti segnati da una pressione che domina ogni gesto dei personaggi. Mi viene in mente una cosa che mi fu detta da bambino e che sul momento mi fece soffrire: "Non confidare sul fatto di vedere sempre nonna. Ogni volta che le dici ’ci vediamo la settimana prossima’ potrebbe non accadere». Io penso che la nuova letteratura, e in genere l’arte, esprimerà questo terribile senso di vulnerabilità che ci ha lasciato la pandemia.