Corriere della Sera, 15 marzo 2021
Lo zibaldone di Tullio Pericoli
Di cosa parliamo quando parliamo di superficie, di grana, di spessore, di contatto e di inclinatura? Vi può sembrare strano, ma parliamo di disegno o di pittura. E di cosa parliamo quando parliamo di ortografia, di alfabeto, di punteggiatura? Vi sembrerà strano, ma ancora una volta parliamo di disegno o di pittura, perché anche le arti figurative hanno una loro grammatica simile a quella richiesta dalla scrittura. Analogie imprevedibili, al punto che l’arte di Klee si potrebbe riassumere in un due punti (:), nel senso che apre sempre a qualcosa, invita a continuare dicendoci «ora tocca a voi»; mentre l’opera grafica di Saul Steinberg si potrebbe rappresentare come un commento tra virgolette… Tullio Pericoli ama i paragoni, gli accostamenti, le analogie, e ogni sua pagina ci stupisce anche per questo. Ama la sinestesia, che è la figura retorica di chi vuole associare campi semantici (e sensoriali) diversi.
Noi pensiamo alla pittura come a qualcosa da guardare? Giusto, ma c’è anche il tatto. Una ruvidezza o una morbidezza da scoprire attraverso il contatto delle dita. Pensiamo al disegno come a un insieme di linee tracciate su una superficie? D’accordo, ma cosa c’è sotto? Pericoli parla anche di geologia, di scavo, di archeologia e di etimologia. Soprattutto: noi pensiamo a un artista figurativo come a un maestro della matita e del pennello, a un creatore di immagini visive? Giusto, ma anche in questo Pericoli riesce a spiazzarci, perché con il mozzicone di matita che si porta sempre in tasca non solo disegna i suoi schizzi ma scrive come un vero scrittore, con spunti di poesia, descrive e rammemora come un vero narratore, spiega come un saggista, divaga come un filosofo. E infatti il suo nuovo libro, Arte a parte (Adelphi), è lo strano oggetto di un’«arte a parte» non classificabile, tra zibaldone di pensieri, racconto memoriale, passeggiata filosofica nel mestiere e anche un po’ taccuino di lavoro che si articola su alcune parole-chiave del tutto idiosincratiche, quelle parole che brulicano nell’aria del suo studio e gli girano per la testa mentre dipinge.
Che c’entra una nave con l’opera d’arte? E che cosa c’entra un treno con l’ispirazione? C’entrano, l’importante è lasciarsi spiazzare. Cioè lasciarsi portare altrove. Dall’immagine alla parola, dalla parola alla vita, dalla vita alla parola, dalla parola all’immagine. Da lì si parte e lì si arriva, al «piacere di dipingere, e di fare un quadro dopo l’altro». La parola «piacere» non è tra quelle che scandiscono i dodici brevi capitoli del libro, ma è la parola più importante, quella che aleggia ovunque e che anima tutto, muove la mano che dipinge e gli occhi che guardano la mano dipingere. La doppia coppia di occhi: perché l’artista, dice Pericoli, ci vede doppio, non dispone solo degli occhi della fronte, ma anche degli occhi della mente, che assecondano i primi o li ispirano, li precedono o li seguono. Parlando di Leonardo, Pericoli si chiede: «Ma vedeva prima e pensava dopo, o viceversa?». E risponde alludendo probabilmente anche a sé stesso: «Io credo che prima pensasse qualcosa, quindi la vedesse nella mente perché l’aveva pensata». Ovvio che ritroviamo in questo vademecum confidenziale e sentimentale (una dichiarazione d’amore per il proprio mestiere) la lunga esperienza di un artista che ha fatto ritratti e paesaggi, opere piccole e grandi, il disegno, l’illustrazione, la vignetta, la pittura, l’affresco, ha lavorato per e con la parola scritta, per e con i giornali, per i libri degli altri e per i libri suoi.
Ed è questo «vederci doppio» (che diventa triplo e quadruplo) a guidare il suo discorso. I fossi che solcavano le colline dell’infanzia, così come la luce e l’orizzonte dei luoghi d’origine (quelli marchigiani), suggeriscono straordinarie descrizioni che riconducono a Leopardi ma anche alla memoria proustiana nel rapporto necessario con la lontananza (il partire per tornare con occhi nuovi): «Il suo crinale si allunga scendendo con una linea netta, quasi incorporea nei giorni di luce velata, che si rialza leggermente verso le due piccole creste…».
Piccoli schizzi di vedute da Sopravena accompagnano il testo. Così, per illustrare al meglio l’agorafobia di cui sembrano soffrire le bottiglie e le caraffe di Morandi, Pericoli ci mette a disposizioni alcuni suoi sorprendenti rifacimenti delle nature morte morandiane. Lo fa sì per spiegare meglio (una sorta di parafrasi), ma anche, sempre spiazzandoci, come omaggio empatico a un artista amato.
E il ritratto? Il ritratto è un ritratto, d’accordo. Di che cosa se «di facce non ne abbiamo una sola»? Il ritratto è la faccia delle facce. Nelle pagine sul ritratto, Pericoli racconta di quando chiamò nel suo studio un amico da ritrarre e per ritrarlo nel modo migliore cercò di intrattenere con lui una conversazione sforzandosi, durante il dialogo, di isolare il viso da qualunque altro elemento circostante per cogliere, tra le tante sue facce, «l’etimologia» di quel volto. E così questo libro di Pericoli, che arriva dopo altri libri sul mestiere, ci appare un po’ come il libro dei libri, una sorta di autoritratto in parole, o meglio alla ricerca delle «parole giuste». Si parte da «vivente», l’aggettivo che un giorno Pericoli, accanto al suo nome e all’anno di nascita, ha trovato sotto un suo disegno messo all’asta, e sono pagine piene di ironia in cui ci si interroga sulla vita e sulla morte, su ciò che resta tra il (tuttora) «vivente» e il «vissuto», soprattutto sul lavoro che resta da fare e dunque sul piacere che resta da godere dipingendo, su quell’«incontenibile moto misterioso».
Mistero è un’altra parola chiave che aleggia su tutto, non solo e non tanto sulle immagini astratte ma anche sugli oggetti d’uso. Il mistero degli attrezzi che ci sembrano parlare di un rapporto amorevole con l’artista: «Strumenti importantissimi per il pittore, perché scrivono una parte della sua storia». Pagine bellissime sono quelle che ci fanno vedere i tubetti spremuti conservati dentro un’ampolla di vetro, oppure il pennello che «sa di essere nuovo», i suoi peli e il manico lucido. Nel mostrarceli, Pericoli ci svela la loro coscienza, la coscienza degli attrezzi pronti ad assecondare ogni gesto e ogni idea, pronti persino a farsi maltrattare per la causa comune. C’è una sorta di devozione e di gratitudine reciproca, degli strumenti verso l’artista e dell’artista verso i suoi strumenti di lavoro.
Arte a parte fa pensare a un libro uscito anni fa nella stessa collana, L’arte del romanzo di Milan Kundera (Adelphi, 1988), che lo stesso Kundera definiva «la confessione di uno che fa della pratica» e dove troviamo lo stesso dono della trasparenza nell’esporre cose complicatissime, nodi che la teoria dei teorici dell’arte rende ancora più inestricabili.
Come il nodo dell’ispirazione, il capitolo in cui culmina la passeggiata di Pericoli: dove viene messo a fuoco, per approssimazione, il concetto del campo di forze, l’immagine di una calamita che chissà perché e chissà come attrae qualcosa di quel pulviscolo che vortica nell’aria, di quel moto continuo di parole, figure, segni, idee, forse anche ossessioni. Provenienti da dove? Pericoli ci parla di un’intercapedine misteriosa, un interstizio, «un vuoto d’aria che esiste tra tutte le cose razionali e il resto del mio corpo, del mio organismo vitale». Qualcosa di non localizzabile, né nella mano, né in un braccio, né in una spalla, né nella mente, né negli occhi. Piuttosto rintracciabile ovunque, nell momento in cui, dal silenzio, ciò che sembrava muto comincia a parlare.