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 2021  marzo 14 Domenica calendario

Intervista a Uto Ughi

Alla fine dell’incontro chiedo al Maestro Uto Ughi se può farmi vedere i suoi due violini. Sono di tale valore che avevo fantasticato li custodisse in casa militarmente, invece eccoli qui, in una custodia semirigida nera, appoggiata accanto al divano: “Questo è un Guarnieri del Gesù del 1744, uno degli ultimi che Guarnieri ha prodotto. Quest’altro, invece, è uno Stradivari del 1701 chiamato ‘Kreutzer’ perché appartenne a Rodolphe Kreutzer, il violinista a cui Beethoven dedicò la famosa Sonata. Sono entrambi della grande scuola di liuteria di Cremona, ma sono due violini molto diversi tra loro. In pittura lo Stradivari assomiglierebbe a un quadro di Giotto, a un affresco di Raffaello, al Beato Angelico. Il Guarnieri invece avrebbe le tinte scure e misteriose di Vermeer, di Rembrandt, di Caravaggio. Si potrebbe dire che uno è l’Apollineo, l’altro il Dionisiaco”. 
La prima volta che suonò il violino Uto Ughi fece finta. Appoggiò una tavoletta di legno sulla spalla e con la mano muoveva un archetto immaginario, imitando i gesti che vedeva dentro casa sua. “I miei genitori erano dei grandi appassionati di musica. Mio padre di professione faceva l’avvocato, ma suonava il violino, mia madre aveva studiato canto. Vivevamo a Trieste come nella vecchia Vienna. La domenica invitavano i gli amici a casa e passavano la giornata suonando. Io ascoltavo appollaiato sul pavimento. Ogni tanto veniva anche il Maestro Goggi, che era il primo violinista della Scala sotto la direzione di Arturo Toscanini”. 
Uto Ughi ha cominciato a suonare all’età di quattro anni, a sette si è esibito per la prima volta in pubblico, a dieci anni è andato a Parigi a studiare con uno dei più grandi compositori dell’epoca, George Enescu, lo stesso anno ha esordito da solista in un’orchestra sinfonica. “Non sono stato un bambino prodigio, ho ricevuto soltanto una buona educazione all’ascolto. Oggi in Giappone i bambini cominciano a suonare ancor prima di quanto abbia fatto io, già a tre anni”. Ha interpretato Brahms, Vivaldi, Tchaikovsky, Mendelssohn, Bach, Beethoven, Chopin e Mozart in un modo che l’ha fatto considerare uno dei massimi violinisti italiani. Eppure ha ancora qualcosa da rimproverarsi. “Dovrei esercitarmi molto di più di quanto faccia adesso. Non poter suonare in pubblico mi ha impigrito”. 
Ci deve essere una ragione se il violino è spesso associato al demonio, mentre gli altri suoni della musica classica sono sempre in odore di santità. Per esempio una sonata per violino di Giuseppe Tartini è nota come “Il Trillo del Diavolo”, e Goethe scriveva che in Niccolò Paganini si vedeva “molto chiaramente la presenza del demoniaco”, tanto che i suoi contemporanei lo chiamavano il “violinista del diavolo”. 

Perché, Maestro?

C’è di mezzo l’eredità della fantasia ottocentesca, secondo cui la bellezza avrebbe un’origine peccaminosa, ma c’è qualcosa che riguarda il violino stesso, che è uno strumento capace di un suono spirituale e sensuale allo stesso tempo. Il suono del violino è quanto di più vicino ci sia alla voce umana, ma con in più le possibilità funamboliche degli effetti che la voce umana non riesce a raggiungere, e della polifonia che una voce soltanto non può ottenere. Il violino si suona con la partecipazione fisica e, a differenza del pianoforte, che ha un suono più statico, il suono è più facilmente adattabile alle esigenze espressive del musicista. Questo dona al suono sensualità. 

È fondamentale il corpo?

È importante, ma non bisogna esagerare. I più grandi violinisti che ho conosciuto – Ojstrach, Heifetz, Stern, Menuhin – erano essenziali, non facevano nessun movimento che non fosse necessario al suono, non accentuavano mai un gesto per impressionare il pubblico, come fanno oggi alcuni violinisti e anche direttori d’orchestra. 

La spiritualità del violino da dove viene?

Non bisogna dimenticare intanto che Lucifero era un Angelo caduto, ma è chiaro che la più straordinaria fonte di creatività musicale viene da Dio. Il violino non fa eccezione. Le più belle composizioni di Giuseppe Verdi sono i Requiem, come di Schubert, Mozart e Bach sono le Messe. La musica di questi geni era intrisa di una fede che oggi non c’è più.

Nemmeno in lei?

Io posso dire che la cerco, e aggiungere che Pascal scriveva che non si cerca che ciò che si è già trovato. 

La musica che suona la aiuta?

La musica è ricerca dell’assoluto, un tuffo nell’eternità, una porta d’accesso al trascendente. Attraverso la musica l’uomo cerca liberarsi dalle scorie della materia e accedere a un’altra forma di esperienza, non materiale. L’assoluta padronanza tecnica del proprio strumento, ossia della materia che produce il suono, è la condizione senza la quale il viaggio non può nemmeno iniziare. Tanto che si potrebbe dire che la storia di ogni musicista è la storia di un corpo a corpo con la materia che si è ostina a tenerlo prigioniero.

Lei si è liberato?

Ma scherza? Ogni giorno mi sveglio e combatto la mia battaglia con la materia. Mi esercito, con la disciplina di un atleta, per raggiungere la libertà di non dovermi più preoccupare delle note che suono sul violino e tentare di avvicinarmi alla verità musicale, senza più l’ostacolo della materia, solo con il mio spirito.

Che cos’è la verità musicale?

È la volontà del compositore, il cuore di ciò che desiderava esprimere. 

E cosa aggiunge un interprete alla verità stabilita dal compositore?

Aggiunge la strada che ha fatto per raggiungerla, perché i sentieri che si possono percorrere per arrivare alla verità musicale sono tantissimi.

Può anche aggiungere o togliere delle note?

L’interpretazione non è un libero volo della fantasia. Ci sono delle regole da seguire, come nella grammatica di una lingua. È all’interno di esse che si apre lo spazio di libertà dell’interpretazione, che può essere vastissimo. Pensi che una volta il compositore Cesar Franck andò ad ascoltare la prima esecuzione di una sonata che aveva scritto. Suonava il violinista  Eugène Ysaÿe. L’allievo che era con Franck si accorse che il violinista aveva disatteso tutte le indicazioni della partitura. E alla fine chiese, timoroso, al maestro cosa pensasse. Lui rispose: “È stata un’esecuzione meravigliosa”.

Il testo comunque rimane intoccabile. Mentre nel jazz, per esempio, il testo serve solo per essere distrutto. 

Ma perché nel jazz conta l’improvvisazione, la spontaneità dell’animo di chi suona, che non sempre preserva, paradossalmente, dalla ripetitività. Mentre nella musica classica ci sono le leggi, c’è lo stile, c’è la consuetudine, c’è la tradizione segnata dai grandi interpreti, che sono i fari che rischiarano il cammino delle future generazioni. 

Ha mai avuto paura di suonare in pubblico?

Eccome. Quando devo affrontare una platea ancora oggi me la faccio sotto. Son tutti lì, attenti a captare ogni sfumatura. Ogni esecuzione è un atto drammatico, aperto all’errore, alla rovina, allo scacco. Davanti al pubblico si avverte la responsabilità di non deturpare un brano, e questo sentimento si può trasformare per alcuni in terrore. Ho conosciuto musicisti che vomitavano prima di salire sul palco. Ne ho conosciuti altri che non sono riusciti a far carriere per la paura di sbagliare. 

Anche lei sbaglia?

Ho sbagliato anche io naturalmente. Ma l’errore è un segno di generosità. Quando dicevano ad Alfred Cortot cosa avesse nella grossa valigia che si portava sempre dietro rispondeva: “Sono tutte le note che ho sbagliato”. Correre il rischio di sbagliare pur di accendere d’intensità un brano è molto meglio che non sbagliare niente e suonare, però, con il distacco e l’orgoglio dell’essere impeccabili.

La musica la fa pensare?

La musica che non suscita pensiero è la musica di intrattenimento, la musica che accarezza o tartassa le orecchie (dipende). Quando suono Bach vedo le Cattedrali Gotiche, i dipinti di Piero della Francesca, avverto la consonanza con l’armonia planetaria di cui parlava Keplero. La grande musica è uno strumento per pensare il mondo; ma è un pensiero che si non può rendere con le parole. È al contempo un’esperienza intellegibile e intraducibile. Sebbene alcune costruzioni musicali abbiano una forma intellettuale molto chiara.

Per esempio quali?

La fuga. Non la farei ascoltare a un bambino. Ha un’architettura precisa: un tema, un contro tema, un divertimento, una frase di transizione, un epilogo. Non direi che è la parte più bella della musica.

La parte più bella qual è?

La melodia. La musica senza melodia è come un albero senza radici. Viene dall’altissimo, come il contrappunto viene dall’uomo.

Eppure la melodia è orizzontale, mentre l’armonia è verticale.

Ma provi a far suonare solo una melodia di Mozart. Reggerebbe benissimo. L’armonia, invece, reggerebbe molto di meno.   

Cos’ha capito del tempo suonando?

Che non esiste un tempo assoluto. Un’esecuzione in una sala di buona acustica ti dà il tempo per esprimere le inflessioni e le coloriture, mentre la stessa esecuzione in una sala sorda non ti dà la stessa possibilità. Il tempo cambia, si adatta al luogo, allo stato d’animo di chi esegue un brano.

Secondo lei le città hanno un suono?

Hanno soprattutto un frastuono.

E il suono dov’è?

Ho passato una notte nella foresta dell’Amazzonia e non ho chiuso occhio per ascoltare i suoni che venivano dalla foresta. 

Mi sta dicendo che il silenzio è innaturale?

Il silenzio è la natura nel suo stato di quiete, è il momento più suggestivo e musicale che esista.

Quando ha suonato l’ultima volta?

Un anno fa a L’Aquila. Un concerto di Mozart.

Come ha lenito la mancanza?

Ho letto, ho pensato, ho pensato soprattutto a quanto sia criminale che la scuola italiana non insegni la musica, come se fosse avulsa dalla nostra cultura. Ci sono una quantità di tesori pronti a essere dissotterrati che quando penso che la maggior parte delle persone non ha gli strumenti per apprezzarli provo una tremenda amarezza.

Lei come la insegnerebbe la musica classica ai ragazzi?

Semplicemente facendola ascoltare.

E cosa pensa di quello che ascoltano spontaneamente?

Non ho niente contro le canzoni, anzi trovo meravigliosa la tradizione della musica popolare italiana. Amo Renato Carosone e non c’è dubbio che Caruso sia un genio. Non vedo però nessuna relazione tra questa tradizione e quello che chiamano il Festival della canzone italiana.

Ha sentito la polemica su Beatrice Venezi, che ha chiesto di essere chiamata Direttore? 

È ridicolo che l’opinione pubblica di un Paese come il nostro discuta per giorni del sostantivo maschile o femminile, anziché preoccuparsi di quello che la Signora dirige, se vale qualcosa oppure no. D’altronde, la critica musicale è scomparsa dai giornali, i grandi concerti sono spariti dalla televisione, e questi sono i risultati.

È così solo in Italia?

In Italia sono state smantellate quattro orchestre sinfoniche senza che un intellettuale abbia detto: “Ma siete pazzi?”. In Germania, in Austria, in Francia, ci sarebbe stata una sollevazione. L’Italia ha rimosso la propria enorme tradizione musicale ed è così che ci stiamo avviando a diventare un Paese minore. Almeno culturalmente.

Secondo lei a che serve la musica classica?

A rendere l’uomo meno gretto ed egocentrico

Ascolta anche altro?

Quando parto in viaggio, per distrarmi. 

Non ha detto che anche la musica classica è un viaggio? 

Sì, ho detto viaggio. Non viaggio turistico.