Il Sole 24 Ore, 14 marzo 2021
QAN30 Totò è sempre a colori
QQAN30
Sono un uomo all’antica, scrive Paolo Isotta nelle prime pagine di San Totò. Intende che crede nei Santi – lo scrive così, maiuscolo – nel senso più che bimillenario del popolo napoletano, che quando cerca una grazia non si aspetta che si facciano tramite con Dio, ma la chiede a loro direttamente. Per me Totò è un Santo, spiega. Lo è per la sua arte, e per la gioia donata a milioni di persone, «gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti».
San Totò è l’ultimo libro del grande musicologo, ultimo nel significato più irrimediabile. Isotta è morto senza poterne vedere che le bozze, a settant’anni. Pochi per andarsene, e ancora colmi di entusiasmo, di piacere della scrittura.
Nell’introduzione si scusa di avere invaso un campo altrui. Non sono un critico cinematografico, dice, non sono un cinefilo. Per fortuna, aggiungiamo noi, sapendo quanto la cinefilia possa rinsecchirsi nella mania. Totò non appartiene solo agli specialisti, è universale, continua. E nel suo universo il libro si immerge, senza presunzioni, senza inutili puntigli “scientifici”, con una leggerezza che Isotta chiama flânerie, gusto e arte di aggirarsi da gran signori per il mondo e le sue cose belle, senza fretta, emozionandosi per il paesaggio.
Il cammino di San Totò attraverso l’universo del Principe inizia dalla fine, come è giusto, trattandosi di un Santo. Il 15 aprile di cinquantaquattro anni fa il sedicenne Paolo scendeva verso via Roma da corso Vittorio Emanuele, a Napoli. Dai bassi venivano donne in lacrime, singhiozzando. «È mmuorto Totò». E s’abbracciavano per condoglianza, come quando un congiunto entra nel regno donde non si torna. Di quel pianto l’aria vibrava, come d’una nota musicale».
Due giorni dopo, davanti alla basilica del Carmine, dove era la bara di Totò, la nota si fece concerto di centomila persone. Quando la bara uscì, sormontata dalla bombetta che ci aveva posto Franca Faldini, a fatica fu infilata nel carro. Ognuno voleva toccare ’o tabuto, il feretro, fosse popolano, piccolo o grande borghese, reietto. Poi il carro si mosse, fuggendo da quell’abbraccio di note. La folla lo inseguì, racconta ancora Isotta, e il «finale di Totò a colori si ripetette».
Di pagina in pagina, di nota in nota, a questo punto il libro riparte dall’inizio, dal primo formarsi dell’universo del Principe, con un big bang che ha tutta la forza della sua “città teatro”. Lo rivediamo con gli occhi della memoria, nutrita dei suoi novantasette film. Come Isotta, rimpiangiamo di non averlo mai visto a teatro. E come lui, siamo grati a quei registi e sceneggiatori che non hanno seguito il consiglio del pur bravo Cesare Zavattini, che avrebbe voluto diventasse un piccolo Chaplin. Lasciato libero di volare attraverso il suo universo, senza badare a critici saputi e grigi, marionetta al pari di Arlecchino, e al pari di Arlecchino diavolo comico, Totò divenne il grande Totò.
E il finale di Totò a colori, tanto caro a Isotta? Dopo l’ultimo sberleffo all’onorevole Trombetta, la marionetta esplode. Incontenibile al pari d’un fuoco d’artificio, e imitando il gran finale di una rivista, Antonio Scannagatti corre a perdifiato per Caianello, anzi per Caianiello, trascinando con sé tutta l’orchestra. Dietro di lui corre il popolo, catturato dalla sua moseca, come i centomila dietro ’o tabuto di San Totò.