Corriere della Sera, 14 marzo 2021
I segreti del Diabolik dei Manetti Bros
Diabolik nei fumetti è la luce dei diamanti, il ghiaccio del pugnale, le ombre della notte. «Diabolik lo leggevamo di nascosto alle elementari, nel cortile della scuola. C’era scritto: fumetto per adulti. Ci appassiona da quando siamo bambini, è il film che sognavamo», dicono Antonio e Marco Manetti, per tutti i Manetti Bros.
Usciti dalla nicchia cult nel 2017 alla Mostra di Venezia con Ammore e malavita(la commedia musicale sull’amore tra un’infermiera e lo scagnozzo di un camorrista premiata con quattro David di Donatello), hanno finito di girare il film sul ladro mascherato, «il re del terrore». Uno dei più attesi, inghiottito dalla pandemia, soggetto allo stillicidio degli slittamenti, ma tuttora destinato alle sale.
I Manetti Bros, che filmano con la cinepresa rivolta al mondo dei fumetti, hanno mosso i primi passi al Noir Festival di Courmayeur diretto da Giorgio Gosetti e Marina Fabbri. Dicono che tutti i loro film hanno una tinta di nero, «anche quando sono contaminati. E abbiamo sempre un sottofondo di commedia. Stavolta però siamo stati attenti a non metterla». Dunque, meno Manetti style e più Diabolik, con la sua lama affilata, la sua calzamaglia nera, gli occhi che fuoriescono, pronto a escogitare il prossimo furto.
Sono stati gli ospiti d’onore alla chiusura della trentesima edizione, in streaming. Hanno portato, grazie a Rai Cinema e 01, le immagini inedite del backstage di Diabolik, dove il protagonista, Luca Marinelli, con i suoi occhi chiari che sprizzano oscurità, è il personaggio immaginario che si riallaccia ai romanzi d’appendice pubblicati nell’800 sui quotidiani francesi.
Il primo numero rappresentava una donna che urlava di terrore, c’era la dicitura «brivido», «diabolico».
«Era il primo novembre 1962», dicono i fratelli registi, consapevoli che se sbagliano un giorno vengono ammanettati dai talebani del genere. «Il numero 3 è l’episodio da cui è tratto il film». È quello intitolato L’arresto di Diabolik in cui appare per la prima volta Eva Kant, bionda vedova ingioiellata, diversa dallo stereotipo dell’eroina classica, diventerà la sua compagna ideale, fidanzata e complice.
I registi hanno ricordato la genesi di Diabolik, formato tascabile, buono per i pendolari che due sorelle milanesi osservavano la mattina nella loro casa accanto alla stazione. All’epoca dei fotoromanzi patinati, dalla fantasia di Angela e Luciana Giussani, ideatrici e editrici, uscì il primo fumetto nero italiano.
Lo Stato fittizio di Clerville (situato probabilmente in Provenza, confinante in altre nazioni immaginarie) è stato ricreato in parte nella cittadina che tanto ha significato nella carriera dei Manetti, Courmayeur, all’Hotel Royal, «dove durante il festival incontravamo registi e scrittori». Qui avviene l’incontro tra Eva Kant, impersonata da Miriam Leoni, e l’ispettore Ginko, che ha il volto di Valerio Mastandrea. Lei, nelle immagini mostrate nel backstage, dice a lui senza girare intorno alle parole: «Se è così, ispettore, piacere di non averla mai incontrata prima».
Le riprese, dove Clerville, reinventata in molte città «si compone come un puzzle», si sono svolte nel Nord Italia, tra un pezzo di Liguria, Bologna, Trieste e soprattutto Milano.
Ma sono luoghi «svuotati», poco riconoscibili. «Nel fumetto erano francesizzati, nel tempo si sono italianizzati. Ci siamo chiesti, come si fa a ricostruire un non luogo? È la prima volta che facciamo un film in costume, se fosse dipeso da noi avremmo ambientato la storia nel mondo di oggi e avremmo sbagliato. È stato Mario Gomboli, l’editore di Diabolik, a insistere. Ha fatto bene. Siamo soddisfatti di come è venuto».
Il modello di Mario Bava (1968), con John Phillip Law troppo simile a James Bond e Marisa Mell, è molto lontano da questi cinquantenni al sottile confine «tra realismo estremo e la fantasia più sfrenata». A lungo considerati alfieri del cinema underground («ma a noi piace la roba popolare, siamo cresciuti con Bruce Willis, Dario Argento e Hitchcock»), sono padri di famiglia dalla vita morigerata che trasfigurano la ribellione nella creatività. Con Song’e Napule sono usciti dal tombino della fama sotterranea, come Diabolik esce dai tombini prima delle sue scorribande. «Lo sappiamo che su questo film c’è una grande attenzione, è il più complesso che abbiamo fatto, ed è quello in cui ci siamo divertiti di più».