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 2021  marzo 14 Domenica calendario

QQAN70 Intervista a Salvatore Settis

QQAN70

Salvatore Settis è un archeologo e storico dell’arte. È presidente del Consiglio scientifico del Museo del Louvre ed è stato direttore del Getty Research Institute di Los Angeles e della Scuola Normale Superiore di Pisa, oltre a essere autore di diversi libri di storia dell’arte. La sua opera più recente si intitola Incursioni. Arte contemporanea e tradizione e ha appena curato la mostra I Marmi Torlonia per il Museo Capitolini di Roma.
Perché si definisce come uno straniero curioso che vaga da un posto all’altro?
«Non sono in grado di immergermi in un secolo o in un artista per molti anni, come fanno molti studiosi. Cerco di capire qualcosa, poi sono attratto da altro. Così sono passato dal ’400 all’arte romana o greca, a un’importante collezione principesca come i Marmi di Torlonia. Qualunque sia la materia, cerco di utilizzare lo stesso approccio filologico, la precisione nel cercare le fonti e l’ambizione di mediare come studioso tra queste e il pubblico».
Nel suo nuovo libro collega l’arte antica e contemporanea. Perché?
«Il mio punto di partenza è un paradosso. Da un lato è comune pensare che l’arte contemporanea non abbia nulla a che fare con quella del passato. D’altra parte, tutti sanno che molti artisti utilizzano frammenti del passato per cui utilizziamo parole come "citazione", "menzione", "influenza" e così via. Ho cercato di unificare tutte quelle parole sotto il nome di "tradizione"».
La tradizione è normalmente associata a qualcosa di statico. Qual è il suo approccio?
«La tradizione può essere molto dinamica ed è parte integrante della creazione artistica, sia nella letteratura che nella musica o nell’arte. Quando Guttuso ha voluto celebrare Pablo Neruda, ucciso dal regime militare in Cile, ha usato come modello la Morte di Marat del pittore Jean Louis David. Marat e David erano amici. Erano entrambi rivoluzionari nel 1789/1790 in Francia, e Guttuso pensava a se stesso e a Neruda come rivoluzionari negli Anni ’70 in America Latina e in Italia. Quindi, in questo caso, il significato politico e l’influenza artistica sono la stessa cosa, e questo è un altro fil rouge che uso in tutto il libro».
La scultura Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini come si collega all’opera di un artista piemontese contemporaneo, Giuseppe Penone, che riproduce alberi e foglie in bronzo o altri materiali ?
«Gli alberi sono uno dei soggetti principali della scultura di Penone, e ho trascorso con lui un’intera giornata parlando del suo lavoro prima di scrivere questo saggio. Trovo stimolante il fatto che catturi una prossimità tra esseri umani e alberi, un legame che ha a che fare con il rapporto tra civiltà e natura. In quanto esseri umani siamo parte integrante della natura, eppure la stiamo distruggendo, quindi l’opera di Penone ha anche un significato ecologico. Nelle Metamorfosi di Ovidio la ninfa Dafne diventa un albero di alloro quando viene inseguita da Apollo, e questa metamorfosi è notoriamente rappresentata in una scultura del Bernini».
Ha appena curato una straordinaria mostra di sculture, I marmi dei Torlonia. Questa grande collezione fu iniziata da un banchiere romano di nome Giovanni Torlonia e poi è arrivata a oltre 600 pezzi. Perché se ne è occupato?
«È la più grande collezione privata di scultura classica al mondo e si è formata alla fine del XIX secolo. Oggi qualcosa del genere, di quella dimensione, ambizione, qualità, è impossibile. Anche nella stessa Roma, questa è l’ultima collezione principesca. Niente di simile è mai stato creato in seguito. Il Museo Torlonia è stato aperto dal primo principe Alessandro Torlonia, ma, per vari motivi, è stato chiuso circa 70 anni fa. Ora le possiamo ammirare di nuovo».
In mostra ci sono 90 pezzi, come sono stati scelti?
«Mettendo insieme due diversi criteri. Uno era l’interesse intrinseco e la qualità dei pezzi, e l’altro era creare una narrazione molto semplice. Usiamo l’estrema ricchezza dei marmi di Torlonia per fare uno spaccato della storia del collezionismo di antichità. Nella prima sala abbiamo una ricostruzione del Museo Torlonia a fine ’800. Si passa poi alla formazione delle collezioni Torlonia, con gli scavi ottocenteschi e poi a ritroso, con la collezione Albani nel XVIII secolo; e poi di nuovo alla collezione Giustiniani nel XVII secolo; e ancora alle prime collezioni della Roma del XV e XVI secolo».
Queste statue sono paragonabili alle opere d’arte di artisti più moderni?
«Secondo Michelangelo sì. Trovò molto interessanti i marmi classici a Roma, e ne abbiamo qualche testimonianza».
Gli artisti contemporanei sono sempre stati chiamati a restaurare statue antiche?
«Nella mostra di Torlonia c’è un esempio molto importante. Una statua di una grande capra di epoca romana, ma senza testa. Per fare la testa, il marchese Giustiniari chiamò Bernini e la testa è molto meglio del resto del corpo».
La collezione Torlonia diventerà un museo privato o un museo di Stato?
«Questa mostra vuole essere il primo passo verso la riapertura del Museo Torlonia, che sarà, in un certo senso, una joint venture tra lo Stato italiano, che si impegna ad offrire un edificio alla collezione. Che però resterà proprietà privata della famiglia e della Fondazione Torlonia. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, in occasione dell’inaugurazione della mostra, ha già individuato un possibile meraviglioso palazzo per questo museo, e trovato una somma di denaro piuttosto significativa, 40 milioni di euro».
Si dice che i giovani non siano particolarmente interessati all’arte. Crede che sia vero?
«No. Conosco un numero enorme di giovani che non sono meno motivati, meno entusiasti, meno interessati e meno determinati a lavorare sulla storia dell’arte di quelli della mia generazione 50 anni fa».
Si sente ottimista?
«Assolutamente sì. Sono stato docente della Scuola Normale di Pisa per molti anni. È una scuola d’élite e i miei studenti erano in media particolarmente bravi, ma ho avuto l’opportunità di incontrare persone di molte altre università e in diversi Paesi, tra cui Germania, Stati Uniti, Inghilterra e Francia. Pensare alle nuove generazioni come a una generazione perduta in termini di storia dell’arte, è sbagliato».