Specchio, 14 marzo 2021
I turisti spirituali, colonizzatori dell’Amazzonia
Iquitos, nel nord del Perù, è la città continentale più grande al mondo non raggiungibile via terra. Costruita sulle rive del Rio delle Amazzoni, è circondata da fitta selva per centinaia di chilometri. Lo sfarzo del suo passato, riscontrabile nelle nobili dimore, nelle chiese e nei palazzi di governo in stile coloniale spagnolo, è dovuto alla schiavizzazione delle popolazioni indigene per l’estrazione del caucciù, che portò i coloni alla ricchezza e i nativi alla decimazione.
Oggi Iquitos muove la sua economia intorno al turismo spirituale. Camminando sul Malecòn Tarapaca, che accompagna il sinuoso percorso del fiume più capiente del mondo, s’incappa in una cornucopia di offerte di viaggi mistici, centri di guarigione e incontri con curanderos. Il crescente entusiasmo internazionale per le pratiche ancestrali dei curatori amazzonici e per il decotto psicotropo chiamato ayahuasca, è un’arma a doppio taglio per le popolazioni locali. Da un lato porta introiti e occasioni per diffondere la propria cultura al di fuori dei confini della foresta, dall’altro depriva i locali proprio di quei benefici che si stanno offrendo agli stranieri.
Se il decotto appena preparato dal curandero di una comunità è usato per tenere delle cerimonie a pagamento con dei turisti olandesi, potrà non essere disponibile (né il decotto, né il curandero) quando si tratterà di curare la comunità locale, priva dei mezzi economici dei turisti. Insomma, la partecipazione a queste cerimonie e la consapevolezza che ne dovrebbe seguire, non può esimersi dal riconoscere queste contraddizioni e i problemi che affliggono le comunità amazzoniche, come la sistematica distruzione delle loro terre e l’annichilimento imperturbato del loro stile di vita.
Purtroppo, i turisti psiconauti tornano spesso a casa alleggeriti dai propri fardelli personali, come depressione, dipendenze e disordini alimentari, frutto dell’alienante stile di vita occidentale, e incantati da una visione nostalgica della vita delle comunità indigene che non solo ignora la loro realtà, ma non considera una reciprocità di cura. Anche quando si tratta d’illuminazione, è facile ricadere in meccanismi neocolonialisti ed estrattivisti.
Di questi temi parla Icaros: A Vision, il film che la mia compianta cugina Leonor Caraballo diresse in Amazzonia nel 2014 insieme al co-regista Matteo Norzi. Io la raggiunsi durante le riprese per esserle di supporto, a lei era stato diagnosticato un tumore terminale e dirigere un lungometraggio nel cuore dell’Amazzonia non era il regime di riposo che mi sarei aspettato da qualcuno nelle sue condizioni. Scoprii presto che non fui chiamato lì per essere d’aiuto a mia cugina, che se la cavava benissimo da sola, ma perché il contatto con la medicina, è così che lì chiamano l’ayahuasca, mi avrebbe aiutato in modi che non credevo neanche possibili. Mentre la troupe era intenta a girare il film, io potei immergermi nel mondo (nei mondi è forse più accurato) delle cerimonie con l’ayahuasca, del quale non sapevo quasi niente. La mia impreparazione non è un elemento indifferente in un percorso che prevede, al contrario, molta consapevolezza e una serie di diete propedeutiche e disintossicanti che includono pesanti restrizioni per quel che riguarda cibo, bevande, medicine, sesso, ma anche esposizione a stress, Netflix e notiziari.
In Amazzonia ogni pianta ha una Madre, uno spirito, con il quale, durante stati alternativi di coscienza, è possibile dialogare. Sono queste persone non umane, è così che chiamano gli spiriti delle piante, degli animali o degli elementi come l’acqua e la terra, a impartire insegnamenti, a illustrare agli esseri umani come prosperare assicurandosi che tutto ciò che li circonda prosperi insieme a loro, condizione necessaria per la sopravvivenza di ogni ecosistema. La formula del curaro, un composto di più di trenta ingredienti diversi, non è il risultato di un processo di prova ed errore, o di uno studio dei principi attivi delle piante, ma un regalo degli spiriti ricevuto in cerimonia. Jung parlerebbe di accesso al superconscio collettivo. La fisica quantistica di campi elettromagnetici che scambiano informazioni attraverso la reciproca influenza vibrazionale.
Partecipare a una cerimonia di ayahuasca significa avere la possibilità di interagire mentalmente con queste persone non umane, di accedere al superconscio, di vibrare allegramente in unisono con il campo quantico di una farfalla. Significa anche poter ricevere lezioni in grado di cambiarci e curarci nel profondo. Sono in tanti, dopo una sola cerimonia, a esclamare: «È stato come fare vent’anni di terapia in poche ore». Per quanto ciò che ognuno riceve durante una cerimonia è unico, imprevedibile e irripetibile, se dovessimo cercare un filo conduttore, o una meta, forse, dove l’ayahuasca sembra volerci condurre, è la comprensione che la nostra salute è legata a doppio filo a quella di tutti gli altri esseri viventi: non puoi fare del bene agli altri senza fare del bene a te stesso, non puoi fare del male agli altri senza fare del male a te stesso.
La Madre dell’ayahuasca, al contrario dell’uomo industrializzato e digitalizzato, sa che l’unica speranza di sopravvivenza per lei, per il suo habitat e per l’intero pianeta Terra è che l’essere umano accetti la sua ecodipendenza. La Madre sa che possiamo essere un devastante strumento di distruzione, ma sa anche che possiamo usare il nostro potere per diventare un efficace fattore di rigenerazione. Se teniamo conto che le popolazioni indigene rappresentano il 5% della popolazione mondiale, ma custodiscono l’80% della biodiversità globale, è lampante che dalla protezione delle loro terre non dipende solo la loro sopravvivenza, ma anche la nostra.
L’antico calendario azteco, il Tonalama, termina nel 2019, perché prevede che nel 2020 sia iniziato un nuovo ciclo e con esso, una Nuova Terra. Secondo la profezia dell’aquila e del condor, sono tanti i cambiamenti che dobbiamo aspettarci negli anni a venire, e tutti sono conseguenza della supremazia dell’aquila, cioè della ragione e della materialità, sul condor, cioè sulla coscienza e sulla spiritualità. Potremo sanarci solo se riapriremo il cuore al mistero del condor, che porta con sé la comprensione della profonda interdipendenza degli esseri viventi, dalla più maestosa balena al più timido dei batteri.
In Amazzonia si dice che la popolarità dell’ayahuasca tra gli abitanti del mondo ad alto impatto ecologico sia dovuta alla volontà della Madre, che ha sentito la necessità di portare il messaggio della foresta, quello stesso messaggio che permette ai popoli originari di vivere da migliaia di anni in equilibrio con i loro ecosistemi, al di fuori della foresta. Questo è ciò che gli occidentali che si avvicinano a Iquitos, alla giungla, ai popoli nativi, al mondo dell’ayahuasca, sono chiamati a portare con sé, oltre alla probabile liberazione dalle proprie dipendenze da sostanze o abitudini tossiche o da relazioni malsane, e alla plausibile risoluzione di antichi conflitti accompagnata da un rinnovato amor proprio. Tutti regali molto apprezzati. La consapevolezza che il benessere altrui sia l’unica via per garantire il proprio benessere, è il regalo più grande che la foresta Amazzonica ti possa fare.