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 2021  marzo 14 Domenica calendario

Come salvare Venezia secondo Gianfranco Bettin

Venezia è una tragedia nella tragedia», taglia corto Gianfranco Bettin, Sociologo, attivista, politico, ambientalista, prosindaco con Cacciari di cui poi è stato avversario, per cinque anni presidente della municipalità di Marghera («Durante il lockdown ero l’unico nel palazzo»), oggi consigliere comunale di opposizione. Da quarant’anni narratore poliedrico tra saggio e romanzo: da Pietro Maso a piazza Fontana, dalle contraddizioni del Nord Est a Sarajevo. E soprattutto Porto Marghera, il petrolchimico. Insomma vita e morte, in ogni senso.
Com’è la città in pandemia?
«Sospesa tra due vuoti, in un evidente contrasto tra il troppo di prima e il nulla di ora.
Capisco il vuoto del turismo, ma l’altro?
«Quello dei veneziani, che emerge al di là delle statistiche dei 20 mila residenti persi in trent’anni. Ora anche questo vuoto si vede, si vive in una città non vissuta».
Non le piace Venezia senza trolley e folle ciabattanti?
«Al di là del piacere delle acque pulite, del romanticismo delle meduse nel Canal Grande e del fatto di non sentire più le bestemmie mattutine di chi non riesce a salire sul vaporetto che lo porta al lavoro, non conosco un veneziano che non soffra per questa calma inquieta e dolorosa».
Combattevate il turismo di massa e ora lo rimpiangete?
«Io criticavo e critico la monocultura turistica, non il turismo che è curiosità, scoperta, desiderio».
Qual è la differenza?
«Lo capii nel 1990, prima estate dopo il crollo del muro di Berlino. Una mattina trovammo Ponte della Libertà intasato di vecchi pullman provenienti dai paesi dell’Est. Dovemmo bloccare piazzale Roma e dirottarli al Tronchetto. Il mondo si rimetteva in movimento, Venezia è molto reattiva alla geopolitica».
Avete perso tempo? O pensato troppo agli schei?
«Abbiamo sottovalutato l’impatto distorsivo, ma non è tutto sbagliato, e comunque non dipendeva solo da noi. Non si resiste alla tentazione di guadagnare con il turismo, una città attrattiva non può essere maledetta».
E adesso, che fare?
«Approfittare del vuoto per capire come governare il fenomeno e non farsi governare. Il problema non è il turismo, ma esserne regina o serva».
E come si governa ?
«Il turismo ha due flussi: quello programmato e quello mordi e fuggi. In genere si punta a limitare quest’ultimo. Invece favorire e contingentare le visite programmate è l’unica cosa veramente efficace. Messo sotto controllo quel flusso, puoi evitare i divieti sull’altro, salvo che in periodi come Pasqua, Redentore, carnevale».
È solo questione di flussi?
«No, se pensiamo all’altro vuoto. Servono correttivi fortissimi a cambi di proprietà immobiliare e modifiche di destinazioni d’uso, limitazioni ai b&b legandoli alla residenza, finanziamenti con tasse di soggiorno a servizi minimi ai residenti in tutti i sestieri: posta, medico, farmacia, scuola».
Il 2020 ha portato una buona notizia: il Mose funziona.
«A differenza dei critici naïf o propagandistici, non l’ho mai dubitato. Al di là del precoce arrugginimento di qualche struttura, il problema del Mose è che funziona troppo».
In che senso?
«Fu pensato negli Anni 80 per alzarsi poche volte l’anno, per maree sopra il metro e venti che ora sono molto più frequenti. Infatti è entrato in funzione già decine di volte in pochi mesi. Il che moltiplica gli effetti collaterali sul porto e sull’ecosistema».
Effetti di che tipo?
«Quando si alza il Mose, le barche non possono entrare né uscire dal porto. Vale per i container, le industrie e le crociere come per i pescatori, soprattutto di Chioggia».
Meccanismi non gestibili?
«A Venezia si dice che la marea sei ore cresce e sei ore cala, ma oggi le variabili sono meno prevedibili. E poi ci sono i preavvisi ridotti, quindi si perdono interi giorni di lavoro. La logistica ragiona sui minuti, il porto perde affidabilità».
E gli effetti sull’ecosistema?
«Correnti deviate, canali che cambiano profondità. Un vecchio detto veneziano dice "palo fa palùo": tu pianti un bastone e si crea una piccola palude, perché attrae sedimenti, aggrega elementi naturali. Quindi più il Mose funziona, più modifica l’ecosistema».
Questo però, ha sempre fatto parte della storia di Venezia.
«Allora bisogna imparare dalla storia, evitando di scavare nuovi canali. Il Vittorio Emanuele, un secolo fa dal Lido a Marghera, e soprattutto negli Anni 60 il Canale dei Petroli, da Malamocco a Marghera, hanno immesso una massa d’acqua crescente in un bacino ristretto da zone industriali e aeroporto. Ora ne vediamo le conseguenze, in un contesto in cui, come qualcuno ha detto, anche gli angeli dovrebbero esitare prima di metterci un piede».
Vale anche per Marghera?
«Porto Marghera è un’area di 2 mila ettari, più grande dell’intera città e dieci volte Bagnoli. La riconversione è andata avanti: dai cantieri navali alla nuova chimica, dalla bioraffineria all’agroalimentare, con 15 mila addetti. Gli investimenti sui terreni liberi sono frenati da trent’anni da due ostacoli: burocrazia e costi delle bonifiche. Se li superiamo, ci sarà nuova vita a Venezia».