14 marzo 2021
In morte di Giovanni Gastel dal Covid nell’ospedale milanese della Fiera
Pier Luigi Vercesi, Corriere della Sera
Giovanni Gastel, che ieri ci ha lasciati sconfitto dal Covid nell’ospedale milanese della Fiera, sosteneva di ispirarsi alle Sacre scritture: «Risorgeremo luminosi». Così, in epoca di photoshop, non ritoccava le sue fotografie ma si sentiva libero di intervenire sul contrasto, sulla luce. Il suo autoritratto lo compose però con le parole: «Sono un malinconico che ride sempre». Era la rappresentazione più intima che potesse fornirci di sé, perché con la fotografia raccontava il mondo esteriore, con la poesia quello interiore.
Era nato da un incrocio bizzarro: sua madre, Ida Visconti di Modrone, grande aristocrazia lombarda, nata e vissuta in epiche dimore come villa Erba a Cernobbio e il castello di Grazzano Visconti, si innamorò di un piccolo borghese che applaudì il giorno in cui vinse i littoriali di canottaggio. Si sposarono nel 1939, dopo anni di dispute in entrambe le famiglie, grazie alla mediazione del fratello di Ida, il regista Luchino Visconti. Giovanni era l’ultimo dei figli, il settimo, nato nel 1955, quando i genitori erano già avanti con gli anni.
Crebbe in un mondo che non esisteva più: «Quando hanno aperto i cancelli e mi hanno spinto fuori, ho scoperto che la vita vera era un’altra cosa. E glielo rinfacciai». Loro erano in buona fede, ma adesso Giovanni doveva trovare il modo di amalgamarsi con la realtà. Non gli serviva nemmeno l’essere stato sul set dei film di zio Luchino e aver sviluppato un grande amore per la storia dell’arte e la poesia.
Il padre gli azzerò le mance il giorno in cui disse che non intendeva prendere un titolo di studio, voleva fare il fotografo. La madre, mai stata in un’aula, cresciuta con uno stuolo di istitutori, gli chiese: «Vuoi andare a scuola?». «No, mamma». «Allora lascia perdere».
Immaginare di campare facendo il fotografo negli anni Settanta era da folli. Totalmente autodidatta, a 17 anni cominciò a «scattare foto che ho conservato per mostrare come non si deve fare». A 19 anni tentarono di rapirlo sotto casa per chiedere un riscatto. Totalmente sperduto, «non ce l’avevo con il mondo, semplicemente non lo capivo, era un mio limite», decise di scendere nella cantina della sua casa e della sua anima e di «reinventarmi un piccolo universo di cui avrei capito le regole perché le dettavo io». Rielaborò il mondo in cui era nato e cresciuto, la sua idea di eleganza, che prima di essere un concetto estetico era un valore etico.
Lo stile, la moda italiana stavano, per incanto, decollando. Davanti a una platea di industriali milanesi campioni di fatturati e investimenti, un giorno dei ruggenti anni Ottanta Giovanni spiegò quella sua strana idea che non si capiva bene se fosse filosofia o qualche balzana illuminazione religiosa orientale. Gli chiesero: «Ma cos’è questa cosa dell’eleganza che non è un valore estetico?». «Un gentiluomo, per esempio, non può non pagare le tasse fino all’ultimo centesimo», spiegò. Silenzio in sala.
Probabilmente non capirono le sue parole ma piacquero le sue immagini e Gastel entrò nell’empireo internazionale dei grandi fotografi di moda. Non solo: i suoi ritratti, quei volti, da Obama alla modella a Bebe Vio all’uomo della strada, fino a pochi giorni fa in mostra al Maxxi di Roma, sono davvero luminosi come fossero filtrati dalle Sacre scritture.
E Giovanni, per chiunque avesse la fortuna di conoscerlo, diventava l’incarnazione del Piccolo principe di Saint-Exupéry.
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Serena Tibaldi, la Repubblica
«Come mai hanno eletto un presidente così dopo di lei?». Ecco come Giovanni Gastel raccontava di aver apostrofato Barack Obama quando se lo era trovato davanti a un cocktail. La risata in cui era scoppiato l’ex presidente è quella catturata dal fotografo, che l’ha trasformata in uno dei suoi scatti più celebri. Uno dei tanti, per la verità: ridurre l’immensa eredità di Gastel a una sola immagine è impossibile. Il fotografo milanese è stato prima di tutto uno dei simboli e degli interpreti migliori dello stile italiano, e la sua scomparsa improvvisa, a soli 65 anni, per Covid, ha lasciato di sasso il mondo della moda, della fotografia e della cultura. La notizia è arrivata nel pomeriggio di ieri; era ricoverato all’ospedale della Fiera di Milano, versava in condizioni gravissime da qualche giorno.Ultimo di sette fratelli, nipote di Luchino Visconti (sua madre, Ida Visconti di Modrone, era la sorella del regista), dimostra presto di possedere il senso estetico, l’intuito nel cogliere l’attimo e l’eleganza dello zio. Inizia negli anni Settanta come assistente fotografo: di quei momenti, Gastel ricordava soprattutto le giornate passate negli scantinati a imparare il mestiere. All’inizio scatta un po’ di tutto, anche matrimoni e cerimonie, finché nel 1981 un suostill life viene pubblicato sulla rivista Annabella. Basta questo per spalancargli le porte di Vogue Italia, e da lì di tutta l’editoria di moda che più conta. Sono gli anni del boom del Made in Italy, e Gastel diventa una delle sue voci più importanti assieme a Oliviero Toscani e Fabrizio Ferri: lavora con Missoni, Krizia, Tod’s, Ferragamo. La collaborazione con Versace va avanti per anni: l’ultimo lavoro risale allo scorso dicembre. «Esiste un dolore che le parole non possono descrivere», ha dichiarato Donatella Versace. «Giovanni era un uomo che sapeva cogliere la bellezza in ogni cosa su cui posasse lo sguardo». «Era una persona umana: sul set era capace di annullare la distanza tra te e lui», ricorda Simonetta Gianfelici, tra le sue modelle preferite. «Anche l’obiettivo spariva. Solo poi ti rendevi conto di come avesse saputo cogliere il dettaglio giusto». La sua abilità non si fermava alla moda, cosa che Gastel stesso aveva capito solo dopo molto tempo: in occasione della personale al Maxxi di Roma lo scorso settembre, aveva ammesso di averci messo anni a smettere di definirsi “fotografo di moda”, per limitarsi al solo “fotografo": a suggerirglielo era stato Germano Celant, che aveva curato la sua mostra in Triennale a Milano nel 1997. Negli ultimi anni si era concentrato sulla poesia e sui ritratti in bianco e nero. «Ho azzerato l’abbigliamento per concentrarmi sulla persona», spiegava. Nascono così i lavori con Vasco Rossi, Catherine Deneuve, Fiorello. Con Obama, per l’appunto. «Era un vero maestro, nel senso che per lui era fondamentale sostenere i giovani», dice Chiara Boni, che aveva affidato a Gastel le campagne per la sua collezione. Vero: durante la pandemia Gastel teneva regolarmente laboratori di fotografia via Instagram. «Ai ragazzi ripeteva che qualunque trucco volessero conoscere, lui glielo avrebbe spiegato: una generosità rara in questo mondo».
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Egle Santolini, La Stampa
«Nei giorni strani che stiamo vivendo, mi rendo conto sempre più che il tempo non esiste, che si deve vivere nel presente assoluto. Un oggetto qualsiasi o una copertina di Vogue, davvero non importa: in ogni fotografia metto tutto me stesso, come se tutta la mia vita si risolvesse lì». Lo diceva Giovanni Gastel neppure un anno fa, all’epoca del primo lockdown. Oggi quelle parole suonano ancora più preziose, perché di questo impareggiabile fotografo si piange la morte, per Covid, a 65 anni.
Era il nipote prediletto di Luchino Visconti, figlio di sua sorella Ida: ma ingabbiarlo nella fascinosa genealogia aristocratica, o nel guscio squisito dell’eleganza – quei completi bianchi, quelle camicie stampate, quella barba curata sul viso da condottiero - che, come un tratto di famiglia, lo ha sempre contraddistinto, significherebbe non comprenderlo. Gastel era innanzitutto uno sguardo, preciso e affilato, poetico, privo di retorica. I suoi ritratti non perdonano, restituendo, come sempre succede per i fotografi più grandi, l’anima della persona: Barack Obama e Monica Bellucci, Vasco Rossi e Fiorello, Bebe Vio e Carla Sozzani, Ettore Sottsass e Marco Pannella, fino a Malika Ayane, l’ultima che ha posato per lui, per la campagna pubblicitaria di Chiara Boni. Diceva: «Tra realtà e fotografia c’è veramente poco rapporto. Fare un ritratto è un atto durissimo, perché si tratta di interrompere il corso inarrestabile della vita». E poi sorrideva: «Obama l’ho fissato lì, come fa l’entomologo con una farfalla. Hanno ragione, certi popoli, ad aver paura di farsi fotografare. Perché una foto ti fissa, come in un’immagine di morte».
La sua era stata un’infanzia privilegiata ma non priva di dolori e asperità, nel castello di Cernobbio, con quella famiglia importante e ingombrante e con un padre che fotografo proprio non lo voleva: la raccontò tutta in un libro intitolato guarda caso Un eterno istante che comincia con la celebrazione del mito della nonna, la leggendaria Carla Erba, «bella, colta, moderna e fortissima», e con una lista dei personaggi lunga qualche pagina, da Germano Celant a Jean Renoir, da Oliviero Toscani a Naomi Campbell, a raccontare un’esistenza favolosa e piena di presenze.
Recitava Ionesco quasi bambino e scriveva poesie a 14 anni. Lo portavano al Giamaica, dove guardava estasiato Elio Vittorini e Eugenio Montale. Ma la parabola personale e autonoma cominciò in una cantina di Milano, fine anni 70, dove il ragazzo Giovanni mise a punto la tecnica del mestiere. Poi venne un apprendistato londinese da Christie, e poi gli incontri che fanno spiccare il volo alla carriera: l’agente Carla Ghiglieri e i giornalisti Flavio Lucchini e Gisella Borioli di Edimoda.
Tra la Milano del boom del made in Italy e la Parigi di Dior, Nina Ricci e Guerlain, il giovin signore Gastel si fa riconoscere molto presto come il fotografo che capisce le donne, la moda e l’air du temps. Sul set, con le troupe, stabilisce un rapporto inedito: «Dico al truccatore, al parrucchiere: guarda che tu devi fare delle grandi foto con me». E lavora come un pazzo, con un’iperattività leggendaria, producendo migliaia di foto.
I ritratti verranno molto dopo, come un naturale prolungamento artistico della sua sensibilità: «Sono un maledetto piacione e faccio di tutto per far crollare le difese ai miei soggetti», confessava. Ma anche, solo apparentemente in contraddizione: «Quando faccio un ritratto azzero il mio ego, tenendo solo il filo della seduzione. Ma non tento nessuna acrobazia, nessuna piroetta: cerco la massima purezza». La celebrazione più completa di questo suo lato professionale arriva in una grande mostra romana al Maxxi, «The People I like», aperta lo scorso settembre. Era soltanto il 18 febbraio quando tenne un incontro su Zoom per presentarla, organizzata dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. Che cominciò, profeticamente, con il suo ricordo di un grande amico e collega appena scomparso, Efrem Raimondi: «Spero che adesso stia bene, e che il nostro dolore serva forse alla sua gioia».