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 2021  marzo 14 Domenica calendario

QQAN64 Il senso di Vaclav Smil per la Terra

QQAN64
La battaglia per salvare il pianeta dal cambiamento climatico va combattuta risolutamente, ma non è detto che la vinceremo entro il 2030, come sperano alcuni, e nemmeno nel 2050, il traguardo indicato dall’Onu per eliminare le emissioni nocive nell’atmosfera. «Ciò che serve è un impegno a cambiare», afferma Vaclav Smil a conclusione di Energia e civiltà , il libro che rappresenta la summa dei suoi quarant’anni di ricerche, appena pubblicato in Italia da Hoepli. Per poi aggiungere una citazione non esattamente rosea di Étienne Pivert de Senancour, scrittore francese del diciannovesimo secolo: «L’uomo perisce. Può darsi, ma cerchiamo di lottare anche se perdiamo».
Nato a Praga dove si è laureato in scienze naturali, emigrato dopo l’invasione sovietica del 1968 negli Stati Uniti, dove ha preso un dottorato in geografia, quindi in Canada, come titolare di una cattedra in studi ambientali all’Università di Manitoba, oggi questo scienziato settantasettenne è un mito nel campo dell’economia sostenibile: «Aspetto ogni suo nuovo libro», dice Bill Gates, «come un bambino aspetta il sequel di Guerre Stellari ».
Di libri ne ha scritti trentasei e ne legge più di cento (senza contare quelli accademici) all’anno, come si desume dal suo ultimo volume (che per sottotitolo avrebbe potuto avere "Il senso di Smil per la Terra") in cui soltanto la bibliografia è lunga cento pagine. «Sul futuro dell’umanità non sono pessimista ma resto scettico», dice, «perché a differenza di politici e imprenditori non devo farmi eleggere né vendere qualcosa».
Perché se ne andò dalla Cecoslovacchia, professore?
«Perché rifiutando di entrare nel partito comunista non potevo aspirare a una carriera universitaria. Ero stufo di vivere in un paese satellite dell’impero del male, come giustamente il presidente americano Reagan definì l’Unione Sovietica».
Ci è più tornato?
«Varie volte, dopo il crollo del muro di Berlino e del comunismo in Europa orientale, principalmente per vedere mia madre. Ma senza nostalgie. Oggi per me la repubblica Ceca è un paese straniero».
È vero che la sua prima lezione ambientalista è stata tagliare gli alberi da ragazzo per ricavare la legna con cui riscaldavate la vostra casa di campagna?
«Una lezione elementare: la legna costava meno del carbone ed era a chilometro zero, nel bosco intorno alla nostra abitazione».
Ed è vero che tuttora cresce parte del cibo con cui si nutre?
«Ho un piccolo orto in cui coltivo, aspetti, glielo dico nella vostra lingua, pomodori, melanzane, peperoni, prezzemolo (il suo italiano è perfetto, ndr ). Mi piace cucinare e preferisco usare, per quanto possibile, ingredienti fatti in casa. Un risparmio energetico. E poi coltivare il proprio orticello è una delle ricette per essere felici, come sosteneva qualcuno».
Come ha imparato l’italiano?
«Leggendo. Faccio fatica con Dante e altri poeti del passato, purtroppo.
E lo leggo meglio di come lo parlo, a parte gli ingredienti dei miei pasti».
Per concludere con le domande di questo tipo, è vero che non ha un telefono cellulare?
«A cosa mi servirebbe? Ho il telefono fisso a casa e in facoltà. Ho due computer per navigare sul web. E comunque un telefonino lo ha mia moglie: ci capita di usarlo, un paio di volte a settimana».
Perché è scettico sui tempi della transizione alle energie rinnovabili?
«Non sono scettico, mi limito a guardare i fatti. Nonostante si parli da anni di ridurre i combustibili fossili per fermare il cambiamento climatico, l’85 per cento del fabbisogno energetico mondiale è ancora soddisfatto da petrolio, carbone e gas. Davvero è realistico aspettarsi di andare da 85 per cento a zero in uno, due o tre decenni?».
Bill Gates, che pure è un suo grande ammiratore, ha appena pubblicato un libro, "Clima.
Come evitare un disastro", più fiducioso sulla possibilità di riuscirci.
«Certo, perché il fondatore della Microsoft è americano e l’ottimismo è la caratteristica del suo popolo. Io, a dispetto del passaporto canadese, sono d’animo europeo e noi europei sappiamo che le cose spesso finiscono male o almeno non così bene come vorremmo».
Una delle sue tesi è che, se vogliamo salvare il mondo, dovrebbe venire limitata la crescita economica. Non è una ricetta per renderlo più povero?
«L’India, l’Asia, l’Africa devono ovviamente crescere di più, per uscire dalla povertà. Siamo noi occidentali che dovremmo dare un limite alla nostra ricchezza.
Abbiamo meno figli e dunque famiglie sempre più piccole, ma abitiamo in case sempre più grandi, un controsenso».
Ma il progresso non ha sempre coinciso con un maggiore consumo di energia?
«Esatto, ma il consumo andrebbe riequilibrato a favore dei paesi emergenti. Oggi l’intera Africa sub-sahariana consuma meno energia dell’Italia dell’Ottocento.
Un miliardo di esseri umani ha troppo poco, anzi niente, nemmeno una lampadina, mentre un miliardo di occidentali ha troppo e spreca».
Lei è anche molto critico sull’urbanizzazione.
«Mi piacciono le città, ma al di sotto di un milione di abitanti, perché sono a misura d’uomo: amo anch’io andare a teatro o poter fare la spesa, in Canada, in un buon negozio di alimentari italiano.
Critico le mega-città da 10 o più milioni di abitanti, troppo rumorose, inquinate ed epicentro di malattie per poter avere un futuro sostenibile. Ma non c’è niente da fare, sono i luoghi che offrono più lavoro, è lì che vuole andare la gente ed è impossibile farle cambiare idea: la popolazione del Giappone è in declino, ma quella di Tokyo è in aumento e ha ormai raggiunto, con l’area metropolitana, i 39 milioni di persone».
A proposito delle città epicentro di malattie, cosa pensa della pandemia che da un anno sconvolge il mondo?
«L’avevo esattamente prevista in un mio libro precedente, dicendo che sarebbe scoppiata entro il 2021. Deforestazione e sovrappopolazione la rendono inevitabile. Ma i moniti non servono. Ci siamo arrivati impreparati, come arriveremo impreparati alla prossima. È nella natura umana correre veramente ai ripari solo dopo che è scoppiata la tempesta. Il Covid ha colpito paesi ricchi e regioni industrializzate più di quelli poveri: un paradosso che contiene la risposta al problema».
Cosa pensa di Greta Thunberg?
«La sua campagna è ammirevole. I giovani sperano sempre di cambiare il mondo. Ma cambiarlo è molto complicato, non bastano una o mille marce di protesta».
Crede che nel 2100 i nostri nipoti vivranno in un mondo migliore?
«Credo che vivranno in un mondo contemporaneamente migliore e peggiore. Ci saranno nuove conquiste scientifiche e tecnologiche, nuovi medicinali per sconfiggere malattie. Mi auguro che da qui al 2100 avremo ridotto i carburanti fossili e il danno ambientale. Ma avremo altri problemi. Se mi chiedono se avrei voluto vivere nel diciannovesimo secolo, rispondo di no, sarei potuto morire di tubercolosi in un batter d’occhio. Ma se mi chiedono se mi piace visitare la fontana di Trevi stretto fra un milione di turisti cinesi, rispondo che preferivo visitarla quando ce n’erano meno.
Capisco che quei turisti portano denaro all’Italia. E capisco che i cinesi, girando il mondo, imparano. Ma tante città prese d’assedio dal turismo, da Venezia a Barcellona, sono diventate invivibili e parlano di metterci dei freni. Trovare un equilibrio, insomma, è difficile.
Rendersene conto può aiutarci perlomeno a cercarlo».