Il vostro primo incontro?
«Fu alla proiezione di La strategia del ragno , mi colpirono il film e il suo modo di parlare di cinema.
Era l’epoca in cui si andava, cinefili, in gruppetto a Londra o a Parigi per vedere un film di Raoul Walsh. Allora il cinema era una religione, comprare un biglietto era un impegno, la sala aveva qualcosa di sacrale. Tutto questo non esiste più, oggi c’è uno tsunami di altri format».
Lei ha sempre spinto Bernardo a viaggiare e a scoprire cose nuove.
«Mi piaceva portargli le cose da vedere, facevo scouting. Abbiamo fatto tanti viaggi insieme, sì, il più difficile e interessante, anche se legato a un fallimento è stato quando siamo andati in America per cercare una distribuzione per Novecento . Il film era troppo lungo, gli studios volevano tagliarlo e lui resisteva, era troppo comunista, Bernardo non si rendeva conto di cosa volesse dire la bandiera rossa in America».
Il film a cui è più legata?
«Forse Novecento . Maamo La strategia del ragno con cui l’ho scoperto, come quel mondo della Bassa, di Parma, quel tipo di pianura, i pioppi. Un film classico e sensuale nel parlare di cibo, di godimento del paesaggio. Bernardo mi ha aiutato anche, ha prodotto Il trionfo dell’amore . Si divertiva con le mie sceneggiature, è venuto a Londra sul set. Ma era anche un uomo dei suoi tempi e che è cambiato nel tempo.
Anche verso le donne… Mi dispiace molto quando gli fanno delle accuse che non sono messe nel contesto del periodo in cui è vissuto. Anch’io ho accettato cose — lavorativamente e socialmente — che oggi non accetterei, valeva per gli uomini e per le donne. Lo sguardo, allora, era sempre del maschio sulla donna, non era mai sulla donna. Bernardo si era reso conto del cambiamento».
Diceva di essere stato troppo figlio per diventare padre. Che significava stargli al fianco?
«Dovevo spesso andare via per non essere troppo presa dai suoi bisogni, mangiava tutto. Anche per nutrirmi.
Anche lui mi nutriva ma io avevo bisogno di scoprire le cose. Andavo a Londra, a volte mi seguiva, ma c’erano periodi di separazione difficili, avevamo entrambi il senso di abbandono».
Quando ha capito che era necessario separarsi per ritrovarsi?
«Quando lui ha fatto La tragedia di un uomo ridicolo sono andata a Londra e sono stata fuori per un periodo. C’è stato il rischio che non si tornasse più insieme e il bisogno di un matrimonio. Noi da soli al Campidoglio, con i genitori di Bernardo, senza mia madre, e i testimoni Enzo e Flaminia Siciliano».
Fu un’idea di Bernardo?
«Tutto nacque da un’esigenza pratica. Io non vedevo il matrimonio in modo romantico, i miei genitori non sono mai stati felici insieme, era triste, invece per Bernardo era una cosa felicissima, e dopo l’ho capito anche io. Per me dopo è diventato qualcosa di profondo. Bernardo aveva grande calore e generosità. Mia madre che lo adorava, ricambiata, diceva che era leale, legato a chi aveva intorno, non sapeva intrecciare rapporti di comodità o interesse».
Anche sul set seguiva l’istinto.
«Sì, non progettava l’inquadratura ma la cercava, come in un balletto, come stesse scrivendo. Aveva interiorizzato la sua straordinaria padronanza della macchina da presa. E si muoveva con una sensualità verso gli oggetti, le stoffe, una faccia.
Lì trovava l’espressione: un colore, una forma, una battuta, che arrivava in quel momento ed era invenzione».
Cosa rendeva felice Bernardo?
«Il cinema, parlarne con amici con cui condivideva il linguaggio.Gli piaceva sapere tutto, anche i gossip, era curioso. E amava tanto la politica, il Partito comunista che aveva sostituito la figura paterna, qualcosa contro cui ribellarsi, ma che era una forza. Poi è arrivata la disillusione».
Molto è cambiato con la malattia.
«Sì. Bernardo aveva una grande forza, fino alla megalomania. Non accettava i cambiamenti del suo corpo. Sul set di Il tè nel deserto aveva difficoltà a camminare sulle dune, ma lo nascondeva e di certo non cercava l’inquadratura più facile. Il suo lavoro lo salvava, gli faceva scordare i dolori e la sedia a rotelle».
Ha scritto l’ultimo film con Ludovica Rampoldi e Ilaria Bernardini.
«Pensava che avrebbe potuto girarlo, gli dava la l’idea della vita che continuava. Lavorare con loro due gli dava forza e gioia. Era così felice di aver finito la sceneggiatura, quell’estate del 2918...».
Aveva una grande voglia di vita.
«Fino alla fine. Fu scioccato quando gli dissero all’ospedale che non avrebbero continuato il trattamento ai polmoni. Tirò fuori uno spinello e se lo fumò lì, in ospedale. C’erano stati tanti momenti in cui avrebbe potuto capire che era vicino alla fine, ma non aveva voluto. In quel momento è stato obbligato. Tre settimane dopo se ne è andato».
"The Echo Chamber" si farà?
«Il Covid ha rallentato tutto, ma spero di sì. C’è un regista internazionale che è interessato, sarebbe bello se lo facesse. È un film sullo stato d’animo di Bernardo nell’ultimo periodo, sulla morte e sul vivere la vita, una struttura molto interessante. Non posso dire di più».
L’urna di Bertolucci è qui.
«Dovremo portarlo a Casarola, anche Giuseppe sarà lì. C’è la casa di Attilio e Ninetta che vogliamo trasformare in un posto per workshop. Nel paese ci vive quasi più nessuno. Ma ricordo che Bernardo andò al cimitero di Tokyo dove era sepolto Ozu e mi piace pensare che Casarola sia il posto dove i giovani possano trovare Bernardo».