13 marzo 2021
QQAN30 Vita di Totò
QQAN30
Notizie tratte da: Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò di Emilio Gentile (Laterza)
RUBRICA CHE NE HO TRATTO PER IL FATTO QUOTIDIANO (a seguire il db completo)
Coserellina «A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?» (in Fifa e arena).
Morte «Il 13 aprile 1967 girò la scena di un film diretto da Nanni Loy, Il padre di famiglia, dove Totò interpretava il ruolo di un vecchio anarchico. La prima sequenza, girata in esterni, rappresentava un funerale. Il giorno successivo avrebbe dovuto girare di nuovo, ma si era alzato molto stanco, perciò fece avvertire che quel giorno non sarebbe andato a lavorare. Già dalla sera prima aveva provato un certo malessere. […] Nel pomeriggio lo tranquillizzarono: il cuore non dava problemi. Ma proprio la notte del 14 aprile il principe soffrì di atroci attacchi cardiaci, e, dopo i primi interventi di assistenza, si rese conto d’essere giunto alla fine. Si strappò il cannello dell’ossigeno e la siringa della flebo, dicendo ai medici: “Lasciatemi in pace”. Erano passate da poco le tre del mattino di sabato 15 aprile, e Antonio de Curtis spirò nel suo appartamento al numero 4 di via dei Monti Parioli».
Principe Il 18 luglio 1945 il Tribunale di Napoli ammise che Totò, figlio di una cameriera analfabeta e di un marchese spiantato, aveva diritto di fregiarsi di nomi e titoli quali Antonio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illyria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo.
Retrocesso In quarta elementare non solo lo bocciano, ma lo retrocedono in terza.
Prete Da bambino s’era messo in testa di fare il prete, serviva messa, teneva un altarino in camera. La madre: «Totò pazzeia a fa’ ’o prevete». Un’amica della madre: «La faccia da prete non ce l’ha».
Ossa «Un comico che fa ridere con le ossa, muovendo gli angoli più imprevisti dello scheletro. Si muove, nei momenti di parossismo, come si muovono sulla lavagna i quadrati costruiti sui lati del triangolo del teorema di Pitagora. […] A questa violentissima capacità di pantomima […] si accompagna per contrasto l’alta mestizia degli occhi più disillusi del mondo. La bocca sorride e si illude, bonaria, gli occhi non credono alla favola gaia entro la quale vivono, il corpo balla e si scompone come nel grottesco di una danza macabra» (Orio Vergani).
Elastico Il Messaggero del 13 novembre 1922: «Totò, comico elastico».
Politici Ai politici che gli chiedevano il voto. «Ma voi dimenticate che un sovrano non vota».
Altezza Il 5 giugno del ’44 Totò incontra Zavattini in piazza San Pietro. Zavattini: «Buongiorno, Principe». Totò: «La prego, Zavattini, ormai siamo in democrazia. Mi chiami pure Altezza».
Miseria «Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita».
Pensatore «Democrazia significa che ognuno può dire tutte le fesserie che vuole».
Notizie tratte da: Emilio Gentile Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò Laterza
DATABASE COMPLETO
«Per quarant’anni, fra il 1927 e il 1967, come attore di teatro nel primo ventennio, come attore di cinema nel secondo, Totò è stato il più popolare comico italiano, tanto che all’inizio degli anni Cinquanta si parlò di “Totòmania” per l’enorme successo dei suoi film: fra il 1947 e il 1967, in Italia, gli spettatori dei suoi film furono oltre 250 milioni, con un incasso totale pari a 93 milioni di euro».
«Io penso sempre, sono un pensatore: penso il giorno, la notte, sempre, e penso che in fondo non siamo nessuno» (Antonio de Curtis).
«Il principe (…) aveva una visione tragica della vita e quindi della Storia, anche se concedeva a Totò di spernacchiare tutti coloro che, secondo la sua massima filosofica, nella Storia, e quindi nella vita, si comportano da “caporali”, cioè tutte le persone prepotenti, che tormentano gli “uomini”, cioè gli esseri umani che conducono un’esistenza grama. In principio, Antonio de Curtis pensava che “gli uomini erano la maggioranza, e i caporali, per fortuna, la minoranza”, ma col tempo giunse invece alla convinzione opposta: “i caporali sono tanti, gli uomini pochissimi”».
Il 3 marzo 1930 la cantante Liliana Castagnola si tolse la vita per amore di Antonio de Curtis, dopo che costui l’aveva lasciata per dedicarsi allo spettacolo: l’indomani egli la fece tumulare nella tomba di famiglia.
A proposito della frase «Siamo uomini o caporali?»: «“La storia di questa frase trova le sue origini nella mia vita militare”, quando le punizioni imposte da un caporale contro la giovane recluta fecero maturare in Antonio “un rancore senza fine nei confronti dei caporali”: “verso coloro, cioè, che, muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l’obbedienza senza discussione, esercitano tali loro meschini poteri con un atteggiamento da piccoli Ezzelini da Romano. Contrapponevo a essi gli uomini, le persone, cioè, che sanno adoperare la loro autorità senza abusare dei poteri loro commessi”. Tornato alla vita civile, Antonio cominciò ad “applicare questo sistema di catalogare le persone”: la frase “Siamo uomini o caporali?”, “nata durante la mia prima giovinezza, mi è sempre servita come sistema metrico decimale per misurare la statura morale degli uomini, e mi è servita, nuovo entomologo, per classificare l’umanità in due grandi categorie”».
L’umorismo secondo Antonio de Curtis: «“In genere, l’umorismo, quale uso comporlo con i gesti del corpo e con la mimica facciale, nasce dalle mie osservazioni di tutti i giorni. (…) Ho prelevato il materiale da studiare, da vivisezionare e da trasferire su un piano caricaturale sempre e direttamente dalla realtà”. L’umorismo, per Antonio, era “la rappresentazione, filtrata attraverso la propria sensibilità, degli uomini nei loro difetti, nelle loro manchevolezze, nella loro vanagloria. Cerco di cogliere l’aspetto ridicolo e lo ritraggo con la mutevolezza del mio viso e le possibilità acrobatiche del mio fisico”».
«Come se avessi a mia disposizione della creta, posso formare, in pochi secondi, sul mio volto l’espressione corrucciata del dittatore, stupefatta dello sciocco, impaurita del debole, audace e avida del dongiovanni, istericamente ghignante del gagarello vanitoso, imbronciata e civettuola del bambino, pseudo-misteriosa dell’uomo che si ritiene depositario dei segreti di Pulcinella» (Antonio de Curtis).
«Considerando la concezione dell’umorismo esposta da Antonio, è evidente che Totò altro non è che lo stesso Antonio, il quale si serve dei personaggi di Totò per rappresentare la sua visione della vita e della Storia».
«Sul palcoscenico egli si manifesta come un mimo sfrenato, travolgente, farsesco, grottesco, divertentissimo; nella vita è invece un nobile di antichissima radice, serio, posato, composto, tipico rappresentante della migliore aristocrazia napoletana. Sul teatro abbiamo la maschera Totò, come abbiamo avuto la maschera Petito, la maschera Scarpetta, la maschera Petrolini; nella vita, il principe Antonio de Curtis» (Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli).
«Nell’intervista televisiva con Lello Bersani, mandata in onda dalla Rai nell’ottobre del 1963 nel programma Tv7, il principe, elegante e serio, conversa in salotto con il giornalista, che gli chiede: “Che differenza c’è fra lei e Totò, mi scusi?”; e il principe: “C’è una grande differenza. Io sono De Curtis, lui è Totò. Lui fa il pagliaccio, il buffone… è un attore. Io sono una persona perbene! Difatti in casa non viviamo vicini. Lui sta in cucina. Io mangio nella stanza da pranzo. Lui mangia in cucina. Io vivo alle spalle di Totò, lo sfrutto. Lui lavora e io mangio…”. Alla fine, col consenso del principe, che resta in salotto, il giornalista va a trovare Totò, modestamente vestito, mentre sta mangiando, con una sveglia sul tavolo: “Chi l’ha mandata, lui? Quello lì, il principe De Curtis? Buono, quello! Glielo raccomando. Me fa mangiare in cucina con il pappagallo e ci devo mettere solo cinque minuti. Disgraziato! Mi tiene sotto così, mi tiene… Questo mese non mi ha pagato nemmeno le marchette. Ma io ricorro ai sindacati, io. Mi raccomando, però, non dica niente… Io lo odio! Odio!!!”».
«Una volta ho sognato di essere Totò che sognava di essere Antonio de Curtis. Appena sveglio, però, ho dovuto prendere atto con stupore di essere Antonio de Curtis che sognava di essere Totò» (Antonio de Curtis).
«Antonio non nacque de Curtis ma Clemente, dal cognome di sua madre Anna, Nannina, una ragazza di sedici anni, orfana di padre, che viveva con la madre e cinque fratelli. Nannina non era sposata all’uomo col quale aveva generato Antonio, il venticinquenne Giuseppe de Curtis, marchese di famiglia nobile spiantata, che viveva con una modesta rendita paterna o facendo il sarto e l’agente teatrale. Il padre del marchese, ancora pieno di albagia benché decaduto, vietò al figlio di sposare una ragazza madre, appartenente a una poverissima famiglia. Pertanto il neonato, partorito il 15 febbraio 1898, fu registrato quattro giorni dopo come Antonio Vincenzo Stefano Clemente, nato dalla “unione naturale” della madre con un “uomo celibe non parente né affine nei gradi che ostacolano il riconoscimento”. Poiché Nannina era analfabeta, l’atto di nascita fu firmato dalla levatrice e dal fratello Vincenzo».
«Dalla nascita fino al 1922, Antonio visse con la madre e la nonna nel piccolo appartamento di un caseggiato fatiscente, situato nel rione Sanità, uno dei più miseri di Napoli, anche se nei secoli passati era stato quartiere privilegiato abitato dalla nobiltà».
«Manesca più che materna, Anna fu presente nell’infanzia di Antonio solo con la severità, esercitata, quando lo riteneva necessario, con ceffoni e insulti. Madre effettiva gli fu la nonna affettuosa, che nutriva e cresceva il suo Totò, diminutivo più che vezzeggiativo di Antonio nella lingua napoletana».
«La principale compagnia del piccolo Antonio fu la solitudine, anche se giocava in strada con gli altri ragazzi. Della scuola, non ne voleva sapere. La biografia [Siamo uomini o caporali?, a cura di Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli, Capriotti, Roma 1952 – ndr] racconta che ci “volle tutta l’energia della madre, perché il piccolo ribelle andasse con regolarità alle elementari”. Ma neppure l’energia materna riuscì a farlo studiare, tanto che alla quarta elementare fu “trasferito, o meglio retrocesso, in terza”. Conseguita faticosamente la licenza elementare, la madre volle iscriverlo al ginnasio, mettendolo in collegio, tuttavia le esperienze scolastiche di Antonio non proseguirono».
«In un primo tempo io volevo votarmi alla carriera ecclesiastica, e alcun tempo dopo a quella marinara: ma, essendo svanite e l’una e l’altra, quando terminai gli studi liceali [in realtà interrotti anzitempo – ndr] mi votai all’arte del palcoscenico, la cui passione pure friggeva entro di me fin dalla più tenera età» (Antonio de Curtis).
«La vocazione al sacerdozio era stata “la prima e la più sentita”, tanto che nel collegio ecclesiastico dove era stato iscritto per il ginnasio divenne “il chierico preferito”: “Servivo la Messa inappuntabilmente: nessuno fra i molti collegiali sapeva servirla meglio di me, ed ero quindi il preferito in questa pia funzione”. E, quando tornava a casa per le vacanze, subito innalzava un altarino nella sua cameretta, e passava il tempo a pregare devotamente. Ma ciò non piaceva affatto alla madre: “Mia madre non era troppo convinta di quella mia spiccata predilezione alle funzioni sacre e riteneva che ciò che facevo fosse più uno svago infantile che una seria predisposizione alle pratiche religiose, anche perché io, contemporaneamente, frequentavo con una certa assiduità il ‘San Carlino’, caratteristico e popolare teatro dialettale partenopeo che non poco mi attirava. Mia madre sosteneva convinta: ‘Totò pazzeia a fa ’o prevete…’ (Totò gioca a fare il prete). Pinzellacchere materne! Io invece, a prescindere, mi sentivo veramente trasportato al sacerdozio, e non era quello un passatempo da bambino. Poi, a sentirmi dire dalla mamma che pazzeiavo mentre un’amica di mia madre insisteva a dichiarare che la faccia da prete non ce l’avevo, e qualche conoscente di famiglia asseriva che sarei stato ’nu prevete sbagliato (un prete cattivo), a poco a poco, l’altarino, gli annuali presepi e il servizievole chierichetto si dissolvettero come neve al sole”».
«Nella biografia romanzata [Siamo uomini o caporali?, a cura di Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli, Capriotti, Roma 1952 – ndr] (…) i compilatori affermano che Antonio smise definitivamente il suo rapporto con la scuola dopo l’espulsione dal collegio perché fu colto ad “amoreggiare con una ragazzetta. Così gli anni di studio, che avevano causato privazioni ed economie nel magrissimo bilancio familiare, erano andati in fumo, insieme ai sogni e alle ambizioni materne”».
«Antonio aveva già calcato le scene a Napoli fra il 1912 e il 1914, col nome d’arte Clerment, in squallidi teatrini di periferia, dove conobbe Eduardo e Peppino De Filippo, giovanissimi come lui. Già allora Antonio si fece applaudire per le contorsioni del suo corpo magrissimo, snodabile come fosse di gomma, e le smorfie del viso goffamente asimmetrico: il mento storto, gli occhi roteanti in direzioni differenti, il collo che si allungava e si ritraeva come una tartaruga oppure slittava orizzontalmente a destra e a sinistra, come staccandosi dalle spalle. Con questo stile, Antonio si esibì nei teatrini di Napoli e dintorni. Rievocando nel 1966 la storia di quel periodo, con attendibile sincerità, il principe De Curtis racconta: “Avevo diciassette anni e guadagnavo tre lire per sera. Più che dare vita a un personaggio, dovevo fare il contorsionista. Ebbi l’idea di far sottolineare ogni mossetta dal crepitare della batteria: il mio fantoccio dinoccolato, con le braccia, le gambe e la testa che si muovevano con scatti isterici, ebbe un successo incredibile. Tutti i ragazzini delle borgate accorrevano ad applaudirmi, e a sentire quegli applausi e quelle risate orgogliosamente pensavo: questo è il successo, più di così non si può ottenere”».
«La rivista napoletana “il Cafè Chantant” segnala per la prima volta il nome d’arte “Totò” l’11 maggio 1916 al Teatro Statuto a Roma, dove il pubblico aveva applaudito “alle buone risorse di Totò, degno emulo di Gustavo De Marco”. Nel 1917, da maggio a settembre, Totò recitò a Pozzuoli, a Bari e poi di nuovo a Roma, al Teatro Diocleziano e al Salone Elena in piazza Risorgimento, prima di essere chiamato alle armi».
Inizialmente assegnato al 22° Reggimento di stanza a Pisa, «egli stesso racconta che da Pisa fu trasferito al 182° Battaglione di fanteria destinato in Francia “presso un reparto di marocchini”: “Non era mia intenzione di avere a che fare con tale genia di soldati di colore; perciò presi la determinazione di evitare con essi spiacevoli fatti personali”. Simulando di essere epilettico, fu prima ricoverato in ospedale e infine fu assegnato all’88° Reggimento di fanteria di stanza a Livorno, dove visse la brutta esperienza del “famigerato caporale, il caporale per antonomasia, il caporale a vita, uno di quelli cioè che ti fanno odiare, per un numero imprecisato di generazioni, la vita e il regolamento militare!”».
«Era in corso la Grande guerra, ma il soldato semplice Clemente Antonio non andò mai in zona di combattimento. Più schiettamente, nel 1928 (…) Totò riassumeva la sua esperienza militare: “Per non tirarla a lungo dirò che nel ’17, quando non avevo ancora diciannove anni, debuttai nel ‘Varietà Statuto’, che è qui a Roma giustamente in via dello Statuto, e fu un successo. Era un varietà di terz’ordine! Poi fui chiamato alle armi e feci il mio dovere. Nei brevi riposi io lavoravo per far ridere i miei commilitoni. Congedato nel ’19, debuttai a Roma, al Teatro Iovinelli”».
«Il 1° agosto 1920 Il Messaggero pubblica una cronaca teatrale intitolata Totò-Totò-Totò al Teatro Jovinelli, dove il comico “ha riportato nel suo debutto un colossale successo”. Nei successivi due anni il nome di Totò appare sempre più frequente nelle cronache teatrali, e sempre con lode. Con le ali di Totò, alla fine del 1922 Antonio volava ormai sulle vette della popolarità. Il 13 novembre 1922 Il Messaggero annuncia “un grandioso programma di varietà” a Roma, “con Totò, l’insuperabile comico elastico”».
«Il 12 dicembre 1924, Il Messaggero annunciò il suo debutto nella Sala Umberto I, uno dei più importanti teatri di varietà nella capitale. Da allora, di mese in mese, da un anno all’altro, Antonio, con Totò, continuò a mietere successi».
«Il 31 agosto 1928 fu finalmente riconosciuto come figlio dal marchese Giuseppe, sette anni dopo aver sposato la madre di Antonio. Il 1928 fu per Antonio l’anno di una seconda nascita. Iniziò allora la sua mania di cercare i propri antenati e i titoli che gli spettavano, potendo ora disporre di abbastanza denaro per pagare le ricerche araldiche, affidate a un suo amico avvocato napoletano».
«Nel 1930 Antonio fece il suo primo provino cinematografico, ma non seguì un film. Anni dopo, raccontò come era andata: “Eseguii il regolamentare ‘provino’. Soltanto, un regista ebbe la brillante idea di dirmi che sarebbe stato bene che, con la faccia che Iddio mi aveva dato, facessi tutto il possibile per imitare… Buster Keaton. Presi cappello in senso proprio e in senso figurato, dichiarando che mi sentivo soltanto di fare… Totò. Così ripresi il mio fardello di pellegrino e tornai al ‘mio’ varietà, formando la compagnia di riviste che agisce ormai da cinque anni”. Come capocomico, Antonio continuò a entusiasmare sia il pubblico che i critici, con riviste spesso scritte da lui stesso».
Il debutto cinematografico avvenne nel 1937 in Fermo con le mani di Gero Zambuto, su soggetto di Guglielmo Giannini, il futuro fondatore de L’Uomo qualunque. «Nel film (…) vi è una scena che sembra alludere al Duce. Inizia con l’immagine di una testa calva, ripresa di spalle, che appartiene a un uomo vestito di nero, seduto su una poltrona, mentre Totò, in camice bianco, sta entrando. Si ode la voce imperiosa dell’uomo, sempre di spalle: “Oh, finalmente!”, e Totò: “Permanente?” – “Ma no! Pedicure!”. Totò sfila scarpe e calzini al signore seduto, mostrando disgusto per il cattivo odore che emana dai suoi piedi, corre alla finestra per prendere una boccata d’aria, poi indossa una maschera antigas. Il testone evoca immediatamente il Duce: l’allusione satirica non poteva sfuggire al pubblico, anche se era forse sfuggita alla occhiuta censura del regime. Potrebbe essere stata considerata un’allusione burlesca e innocente, oppure fu tagliata dal film prima della distribuzione nelle sale». La pellicola fu accolta assai tiepidamente dalla critica.
«A Roma, Antonio abitava in un appartamento nel quartiere Prati con la moglie e la figlia, e poi i genitori. (…) Nel 1933, la sua unione con la giovanissima Diana Bandini Rogliani, iniziata nel 1931 quando lei era sedicenne, era stata allietata dalla nascita di Liliana, alla quale seguì nel 1935 il matrimonio in chiesa della coppia. Ma la vita coniugale fu presto amareggiata dalla gelosia di Antonio, che alla fine propose alla moglie di divorziare; e lei accettò, pur continuando a vivere insieme per crescere la bambina. Il loro matrimonio fu annullato in Ungheria alla fine del 1939».
Antonio de Curtis a Cesare Zavattini, a proposito della sua visione della comicità: «Adopero spesso le parole “surreale”, “metafisico”. Qualche amico mi ha messo in guardia: sono un po’ troppo adoperate e vaghe. Io non arrossisco nel dirle, ma per me vogliono dire “fantastico” come lo avrei detto a dieci anni. Credo che i cartoni animati siano surreali e metafisici nel mio senso un po’ ingenuo: per questo vorrei essere, come maximum, il protagonista di un cartone animato. Anche perché vorrei parlare pochissimo. Ridere, esclamare; io rido in due modi, e proprio da cartone animato».
«Il mio fisico potrà anche far ridere al primo sguardo. Ma non si capisce mica bene perché susciti un sorriso. Non ho la classica linea comica; se guardo le mie fotografie, mi vedo angoloso, angoscioso, come un uomo normale visto in uno specchio deformante. Nei miei lineamenti c’è qualcosa di indefinito: vogliamo dire una bella frase? che tende all’infinito. È su questa deformazione della realtà quotidiana che io devo puntare» (Antonio de Curtis).
Antoni de Curtis nel 1966, a proposito della sua attività artistica durante l’Èra fascista: «Facevo della satira, e con successo, perché l’italiano ama vedere preso in giro questo o quel personaggio. L’italiano è un po’ come il bambino: ha continuamente bisogno della favola di Cappuccetto Rosso, col quale si identifica, come identifica il governante del momento col lupo cattivo. Ma, siccome per quest’ultimo personaggio manca sempre il cacciatore buono che lo fa fuori, allora Cappuccetto Rosso ama sentire dire cattiverie sul lupo, sui figli del lupo, sul nipote e sul pronipote del lupo. Il fascismo permetteva che lo si prendesse in giro, e noi lo facevamo con garbo e senza essere mai triviali. Perciò ogni sera facevo divertire il bravo Cappuccetto Rosso».
«Il principe era sincero quando, con modestia, rivendicò di aver fatto anche lui, nel suo piccolo, una sua “resistenza” al fascismo, servendosi della satira teatrale. La sua “resistenza” iniziò dopo il 1941, con le riviste scritte da Galdieri per la coppia Totò-Magnani – Volumineide (febbraio 1942), L’Orlando curioso (ottobre 1942), Che ti sei messo in testa? (febbraio 1944) –, dove numerose erano le allusioni satiriche al regime, al Duce e specialmente agli alleati tedeschi. Pertanto, il censore impose cancellazioni o modifiche».
Il 3 maggio 1944, «avvertito da un amico della Questura di essere stato denunciato insieme a Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, con l’ordine di catturarli e trasportarli al Nord, Antonio attese nascosto in casa – dopo aver avvertito gli amici De Filippo – l’arrivo degli Alleati. E il 5 giugno, il giorno dopo la liberazione della capitale, era in piazza San Pietro ad acclamare il Papa. Qui incontrò per caso l’amico Zavattini, che lo salutò chiamandolo “Principe”. E Antonio, serio: “La prego, Zavattini, ormai siamo in democrazia, mi chiami pure Altezza”. E, di rimando, Zavattini: “D’accordo, ma lei mi chiami Cesare, anzi, compagno Cesare”».
Il 26 giugno 1944, in una Roma appena liberata, «Totò è già sul palcoscenico del Teatro Valle, ancora con Anna Magnani, in una nuova rivista di Galdieri, Con un palmo di naso. Ormai libero di dare sfogo al suo estro creativo, Antonio affida a Totò il compito di mettere in ridicolo Hitler e Mussolini, i due caporali totalitari ancora al potere. Totò impersona sia il Führer, con ciuffo e baffetti, sia il Duce, con le sembianze di Pinocchio. La ferocia satirica di Totò e l’effetto liberatorio che ebbe sul pubblico borghese sono testimoniati vivacemente da un commento pubblicato due mesi dopo il debutto della rivista da Vincenzo Talarico, uno dei critici più ostili a Totò come attore cinematografico. Il 26 giugno, scriveva Talarico, il debutto di Con un palmo di naso al Valle “tutto esaurito” aveva segnato “una data nella storia dei teatri della capitale”, una “specie di 25 luglio degli spettacoli di rivista”, “una prima veramente ‘prima’”, perché per la prima volta era senza gerarchi, anche se i gerarchi nel teatro non mancavano: solo, non erano più fra il pubblico, “ma, finalmente, sul palcoscenico”».
Pur privo di alcuna nostalgia per il regime fascista, verso i «liberatori» americani «il marchese Antonio non aveva simpatia, anzi li considerava degli “zulù”, come li definì dopo una recita per gli ufficiali alleati a Salerno con la sua fedele spalla Mario Castellani. Negli anni successivi, Totò mise sotto satira sia l’ufficiale statunitense nell’Italia liberata, ubriacone e sporcaccione come in Siamo uomini o caporali, sia l’italo-americano, spesso gangster, come in Totò a colori (1952) e Totò lascia o raddoppia? (1956), o arricchito credulone, in Totòtruffa ’62 (1961)».
Assai spiacevole l’incidente che gli occorse nel marzo 1945 al Teatro della Pergola di Firenze, dopo essersi esibito nella rivista Imputati, alziamoci!. «Totò impersonava Napoleone, al quale un attore domanda: “Compagno?”, e Totò risponde in francese: “Camarade”, ma, poiché l’altro fa finta di non capire, aggiunge: “Camarade o compagno è lo stesso”. La battuta era di “dubbio gusto”, scrisse il giornale fiorentino La Nazione del Popolo, per l’assonanza fra “camarade”, che in francese significa anche compagno, e “camerata”, appellativo tipicamente fascista. E infatti provocò “il risentimento di qualche spettatore, che ha voluto dare una tangibile dimostrazione del proprio malcontento”. Dopo lo spettacolo, infatti, uno sconosciuto si recò da Totò nel suo camerino, con la scusa di chiedergli una fotografia, raccontava il giornale: “Poi gli ha domandato, con aria ingenua, di spiegargli ancora che differenza passa fra camerata e compagno. L’artista, così spigliato sul palcoscenico, è rimasto confuso e non ha saputo cosa rispondere; o, forse, non ne ha avuto il tempo, in quanto l’altro gli ha sferrato un pugno in pieno viso”. Un macchinista teatrale, intervenuto per difendere Totò, fu affrontato da altri due sconosciuti e si prese anche lui un pugno. Gli aggressori se ne andarono e non subirono conseguenze, mentre i due aggrediti furono portati in ospedale e dichiarati guaribili in dieci giorni. Totò aveva una ferita lacero-contusa al labbro superiore e una ferita allo zigomo. Antonio tornò immediatamente a Roma, dove attese la fine della guerra. Anche la Liberazione, forse pensò, ha i suoi caporali».
«Finalmente, nell’Italia liberata, Antonio de Curtis vinse la sua battaglia araldica. Il 18 luglio 1945 il Tribunale di Napoli gli riconobbe il diritto di fregiarsi di nomi e titoli quali Antonio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illyria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo. Antonio era diventato principe e altezza imperiale. Il suo posto nella Storia non era più confinato nella nicchia di una enciclopedia dello spettacolo, ma era inciso nel Libro d’oro della nobiltà italiana, come discendente di una progenie imperiale che risaliva all’imperatore Costantino».
«Nei mesi precedenti il referendum istituzionale, il principe non manifestò particolare affezione per casa Savoia, né fece satira sull’attualità politica. (…) È probabile che il principe De Curtis abbia votato a favore della monarchia, anche se non risulta che l’abbia pubblicamente sostenuta. Anni dopo, nel 1966, in una intervista dirà: “Umberto sarebbe stato un grande re, il più grande. Ha pagato le colpe di suo padre. Mi ha dedicato una sua foto. Io, a Umberto, questo avrei voluto dirgli: Maestà, quest’inchiostro, invece di usarlo per le dediche, lo tenga per le cambiali”. Con la battuta finale, Antonio smorzava la sua devozione al re mancato, al quale forse si sentiva grato solo perché, nella sua innata modestia, reputava un grande onore aver ricevuto una foto con dedica da Sua Maestà, che faceva mostra di sé sul pianoforte in casa De Curtis».
Al di là di un’estemporanea manifestazione di simpatia per l’allora sindaco di Napoli, il monarchico Achille Lauro, «il principe si astenne dall’esprimere pubblicamente qualsiasi preferenza politica, limitandosi a farsi fotografare sorridente, nel giorno delle votazioni, mentre infilava la scheda nell’urna. Tuttavia, nel 1952, in occasione delle elezioni amministrative, quando autorevoli esponenti di un partito gli offrirono con insistenza una candidatura nelle proprie liste, e, di fronte al suo deciso rifiuto, gli chiesero di poter contare almeno sul suo voto, il principe, “con tono compitissimo di superiorità e distacco, aveva risposto: ‘Ma voi dimenticate che un sovrano non vota…’”».
«Un comico che fa ridere con le ossa, muovendo gli angoli più imprevisti dello scheletro. Si muove, nei momenti di parossismo, come si muovono sulla lavagna i quadrati costruiti sui lati del triangolo del teorema di Pitagora. Data la sua origine napoletana, non è forse ingiusto ricordare, a suo proposito, la geometria di certi gesti dei mimi greci, tramandati nella pittura dei vasi ellenici. A questa violentissima capacità di pantomima (…) si accompagna per contrasto l’alta mestizia degli occhi più disillusi del mondo. La bocca sorride e si illude, bonaria, gli occhi non credono alla favola gaia entro la quale vivono, il corpo balla e si scompone come nel grottesco di una danza macabra» (Orio Vergani).
In un quadro della rivista di Galdieri C’era una volta il mondo, che debuttò al Teatro Valle di Roma il 21 dicembre 1947, Totò, nei panni di un arcidiavolo, incontrava in un vagone letto l’onorevole Cosimo Trombetta, interpretato da Mario Castellani, che scherniva e dileggiava fino al punto di indurlo a gettarsi da un finestrino del treno in corsa. «Era la prima volta che Totò, nella finzione del teatro, incontrava un onorevole. Ed era la prima volta che il principe De Curtis lasciava a Totò la libertà di spernacchiare, nella simbolica figura dell’onorevole Trombetta, i nuovi rappresentanti della democrazia parlamentare, eletti liberamente dal popolo sovrano, a dimostrazione che Antonio, e Totò con lui, si trovò subito a disagio nell’Italia democratica rappresentata dagli onorevoli, verso i quali manifestò presto la sua antipatia. Non si sa bene quale sia stata l’origine di questa antipatia. La sua compagna Franca Faldini l’attribuiva a un’esperienza negativa che Antonio aveva vissuto da ragazzo, quando fece propaganda per un candidato alla Camera che poi non aveva mantenuto quanto promesso in campagna elettorale. Anche se l’origine era remota, persistente rimase l’antipatia del principe nei confronti degli onorevoli della Repubblica».
Con il governo De Gasperi V, costituito in seguito alle elezioni del 18 aprile 1948, «era iniziata l’epoca dell’egemonia democristiana, che ebbe importanza decisiva nella Storia dell’Italia repubblicana. Come l’ebbe anche per la Storia del cinema italiano, e, nell’ambito di quest’ultima, anche per la Storia di Totò. Infatti, per venti anni, come attore di cinema, dovette subire i ripetuti assalti ai copioni dei suoi film da parte della nuova censura dell’Italia democratica, che conservò la legislazione censoria del regime totalitario, lasciando la gestione agli stessi funzionari fascisti riciclati. Verso i film interpretati da Totò, la censura mostrò un accanimento maggiore di quello esercitato dal regime fascista nei confronti delle sue riviste».
Nella rivista di Galdieri Bada che ti mangio!, che debuttò al Teatro Nuovo di Milano il 3 marzo 1949, «per sintonizzarsi con la nuova èra atomica della Storia in corso, Totò impersona l’Adamo Radioattivo dei duchi di Bandone, una creatura meccanica con sembianze umane, ma senza cervello e senza anima, solo pronto a eseguire ogni comando degli scienziati che l’avevano fabbricato. Svolge in questo modo, in vari quadri, diverse mansioni, ma produce sempre disastri. (…) Fu durante la rappresentazione di Bada che ti mangio! che Totò usò per la prima volta l’espressione “Siamo uomini o caporali?”. E per Totò il caporale più vessatorio nella nuova Italia democratica fu la censura dei governi democristiani».
«Un primo segnale del nuovo regime censorio, Totò lo aveva avuto subito dopo la liberazione di Roma. Mario Castellani ha raccontato che nel quadro “Il Paese dei balocchi” c’era uno scambio di battute fra lui e Totò – “Quello lì ha la testa di legno!”, “Benissimo! Vuol dire che lo faremo ministro!” –, e il pubblico scoppiava a ridere pensando a qualche ministro fascista. “La censura, tuttavia, non ci disse mai niente. Ma un giorno arrivarono gli Alleati a Roma e ci portarono la libertà. Naturalmente, ripresentammo il quadro, e sempre con l’identico successo. Ma ci andò male con la censura democratica: infatti il quadro ci fu proibito dopo la prima rappresentazione”».
«Dopo il 1947, la censura democristiana, ispirata dalla Chiesa di Pio XII, divenne intransigente contro le esibizioni sessuali nel cinema, e intervenne subito per imporre nel film I due orfanelli il taglio di una scena dove le ragazze dell’orfanotrofio, in assenza della direttrice, facevano la doccia nude, dietro tende trasparenti. Tuttavia, nei primi anni dell’età degasperiana, quando l’apparato censorio non era ancora ben riorganizzato, qualche frecciata Totò riuscì ugualmente a scagliarla proprio verso la censura. Nel film Fifa e arena (1948) c’è una scena dove Totò guarda, attraverso un acquario, Isa Barzizza, nella parte di una miliardaria americana, distesa seminuda su un lettino durante un massaggio, ma un pesce impedisce a Totò di vederla integralmente: “Via! Via!”, dice Totò facendo un gesto con la mano per cercare di farlo spostare, ma senza esito: “Deve essere democristiano questo pesce”, conclude».
«Non ci fu (…) la sfida a (…) duello che un colonnello di aviazione a riposo lanciò al deputato democristiano Oscar Luigi Scalfaro, il quale, ardente di sacro furore moralizzatore, nel luglio del 1950 aveva insultato pubblicamente, in un ristorante, una giovane signora perché aveva le spalle troppo nude. Il deputato rifiutò la sfida perché, disse, il suo sentimento cristiano gli impediva di fare duelli. Il rifiuto offese non solo il padre della signora, il colonnello, ma anche il principe De Curtis, che indignato scrisse una lettera aperta al deputato, pubblicata sull’Avanti! col titolo Siamo uomini o…, dandogli una lezione di dignità: “Il sentimento cristiano, prima di essere da Lei invocato per sottrarsi a un dovere che è un patrimonio comune di tutti i gentiluomini, avrebbe dovuto impedire a Lei e ai Suoi Amici di fare apprezzamenti in un pubblico locale sulla persona di una Signora rispettabilissima”. L’episodio probabilmente abbassò ulteriormente la considerazione che il principe aveva degli onorevoli».
«Nell’Italia democratica, Antonio affidò a Totò il compito di offrire al pubblico, in versione satirica, la rappresentazione della realtà quotidiana della gente comune, introdotta dal neorealismo nel cinema italiano. Conferendo a Totò un aspetto più reale e umano, il principe, pur facendo ridere, denunciava egualmente i drammi nell’esistenza quotidiana di persone povere, solitarie, derelitte, che erano forse la maggioranza nell’Italia del dopoguerra».
«Il 1950 fu l’anno in cui si registrò l’esplosione della “Totòmania”. Così la definì il critico Roberto Sgroj, che ne attribuì la causa alla voglia di ridere di un pubblico vasto e popolare. (…) Mentre era impegnato in ruoli drammatici, come in Yvonne la Nuit e Napoli milionaria, in tutti gli altri film Antonio diede sfogo alla sua esigenza di comicità pura, lanciando Totò in avventure fantasiose, grottesche, strampalate, paradossali, iperboliche, con film di parodia e di farsa, che però conquistarono un pubblico più numeroso dei film drammatici, e maggiori incassi per i produttori: Fifa e arena, Figaro qua, Figaro là, L’imperatore di Capri, Totò le Mokò, Totò cerca casa, Totò sceicco, 47 morto che parla, Il turco napoletano, Totò e le donne superarono i 4 milioni di spettatori e 15 milioni di euro. Totò a colori è stato il suo film di maggior successo, con 6.390.000 spettatori e 25.800.000 euro. Erano film di farsa e parodia, che comunque servivano al principe per far satira di costume».
«La maggior parte dei critici disprezzava i film di Totò, definendoli “totòate”, cioè farse improvvisate, rabberciate, confezionate in fretta, che facevano ridere il pubblico incolto delle periferie e delle province. Ma c’era anche chi intuiva il significato profondo del successo del comico Totò: “A questo mondo si soffre, si piange, si muore, ma non dimentichiamo di ridere. Diffidate di quelle civiltà nelle quali non fiorisce l’umorismo, diffidate dei tempi nei quali s’inaridiscono le sorgenti del ridere”, ammoniva il poeta Aldo Palazzeschi nel recensire Tototarzan, il 9 dicembre 1950: “Abbiamo attraversato ore di angoscia e di dolore, di umiliazione, privazioni e sofferenze fisiche d’ogni genere: i nostri migliori registi le hanno sapute cogliere con passione in film che rimarranno famosi, ma c’eravamo dimenticati di ridere, avevamo perduto la gioia di vivere. Totò è il richiamo all’ordine della civiltà. Per questo la parte semplice del pubblico, immensa parte, segue con fedeltà questo artista, lo ama, e, qualunque cosa faccia, gli piace. (…) Totò è apparso all’orizzonte del cinema come arcobaleno dopo il temporale”».
«Appartengono alla categoria degli uomini i personaggi interpretati da Totò in Guardie e ladri, Dov’è la libertà…?, Una di quelle, Il più comico spettacolo del mondo, L’oro di Napoli, Totò e i re di Roma, La banda degli onesti, Totò e Marcellino, Risate di gioia, Lo smemorato di Collegno. Alla categoria dei caporali appartengono fra gli altri i personaggi interpretati in Totò le Mokò, 47 morto che parla, Totò a colori, Totò, Peppino e la… malafemmina, Totò nella luna, Signori si nasce, Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi, Letto a tre piazze, Totò Diabolicus, Il comandante, Che fine ha fatto Totò Baby?, che rappresenta il caporalismo esasperato fino alla più sadica e folle crudeltà. C’è poi una categoria intermedia di personaggi nei quali il caporale è tale per gran parte della storia raccontata, ma alla fine, per impreviste circostanze, diventa uomo: per esempio, Totò e Carolina, I due marescialli e I due colonnelli».
Il suicidio di Liliana Castagnola «segnò il resto della vita di Antonio, imprimendovi ancor più quella sua drammatica caratteristica, che lo vuole tanto più celebre e applaudito sulla scena o sugli schermi, quanto più triste e solo è nella vita. (…) Totò, che ha divertito milioni di persone, nella vita ride molto raramente. Egli, se si dovesse tracciare un consuntivo della sua esistenza, non è stato mai veramente felice. Le sue vicende di uomo sono state segnate dalla tristezza e dalla solitudine, che, pur senza fare di lui l’Amleto del riso, dimostrano come il destino associ molto raramente la celebrità alla felicità. Sembra che, nella vita, gli uomini debbano accontentarsi o dell’una o dell’altra» (Alessandro Ferraù ed Eduardo Passarelli).
«Dopo anni di convivenza turbolenta, seguita al divorzio ottenuto nel 1939, ma valido solo per il matrimonio civile, nel 1950 Diana aveva lasciato definitivamente Antonio. Fu in quella circostanza che Antonio compose la canzone Malafemmena. Poi, il 24 giugno 1951, Liliana si sposa contro il volere del padre, che non partecipa al matrimonio e rompe con la figlia. Il 1° agosto si risposa anche Diana. Il principe De Curtis rimase in compagnia della solitudine e del cane. Espresse il suo stato d’animo in alcune poesie, (…) tutte intonate alla dolorosa tristezza di un amore finito. Uomo infelice, ma comunque fortunato, (…) nel 1952 ebbe la consolazione di un nuovo amore con una giovane attrice, Franca Faldini, che aveva trentadue anni meno di lui, e strinse con Antonio una convivenza stabile e appassionata».
Dal colloquio tra Totò Esposito, l’anziano attore disoccupato interpretato da De Curtis in Siamo uomini o caporali (1955), e lo psichiatra del manicomio in cui è stato rinchiuso per aver minacciato di uccidere a Cinecittà un capo-comparse con «la faccia del caporale» che l’aveva insultato e minacciato: «“Dottore, le spiego. L’umanità, io, l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno, li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa. A qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”. “Perbacco, la sua definizione è esatta. Non ci avevo mai pensato”, osserva il dottore. “Lo vede – fa Totò sornione –, sono pazzo?”. E il dottore: “Pazzo? Più saggio di così, si rischia d’impazzire”».
«Caporali, vede, son quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti… Quelli, sa: sempre meglio dell’ingratitudine…» (Antonio de Curtis a Oriana Fallaci).
«Il principe non concede a Totò di giustificare nessuna guerra, affermando il principio che ogni vita è sacra. E infatti il principe adottò oltre duecento cani per salvarli dalla camera a gas e farli accudire in un canile decente. Ma sovvenzionava anche, generosamente, senza pubblicità, istituti per ragazzi disabili».
Nei film di Totò non c’è traccia di patriottismo, «anche nell’evocazione della Grande guerra fatta nel 1949 in Yvonne la Nuit. (…) Alla stazione, in partenza per il fronte, solo, pensieroso e triste, Nino non partecipa ai canti patriottici dei commilitoni sul treno, e si lascia tirar su da loro, per osservare con commiserazione quegli uomini che cantano per andare ad ammazzare o a farsi ammazzare. L’atteggiamento di Nino soldato e la sua partenza per il fronte sono una evidente critica all’intervento italiano nel primo conflitto mondiale, e questa era allora una novità davvero singolare, perché il culto patriottico della Grande guerra era ancora vivo, ostentato nella retorica di tutti i partiti, non solo dalla destra monarchica e neofascista, ma anche dai partiti antifascisti, socialisti e comunisti compresi, che avevano scoperto il mito patriottico durante la Resistenza col consenso dei loro dirigenti: Pietro Nenni e Palmiro Togliatti erano partiti volontari nel 1915, come Giovanni Gronchi, uno dei principali esponenti della Dc. Nel 1949 non c’era stato nessun film critico sulla Grande guerra, e passeranno dieci anni prima della dissacrazione compiuta da Vittorio Gassman e Alberto Sordi in La grande guerra di Mario Monicelli».
Altro grande assente nel cinema di Totò è il senso dello Stato, di cui sono mostrati affatto privi i parlamentari della Repubblica. «Attraverso Totò, Antonio manifestò la sua sfiducia nella democrazia dei partiti, vedendo in essi la proliferazione di un nuovo genere di caporali senza uniforme, i professionisti della politica in borghese, che fregiandosi del titolo di onorevoli esercitano il potere unicamente o principalmente per il proprio interesse, non curanti del bene comune. Una satira sferzante degli onorevoli, il principe la fa infliggere da Totò in Gli onorevoli, che ha “il primato di essere la prima commedia italiana di satira politica”, dove erano presi in giro tutti i principali partiti (tranne il Partito socialista)».
«La “Totòstoria d’Italia” si concludeva con la sfiducia nella democrazia. Totò la sbeffeggiava con battute che parevano echeggiare la retorica dell’Uomo qualunque, scomparso dalla scena politica nel 1948, mentre erano congeniali alla visione della vita e della Storia del principe De Curtis: “Democrazia significa che ognuno può dire tutte le fesserie che vuole” (Gli onorevoli), “Siccome sono democratico, comando io” (La cambiale, 1959). Della politica aveva una visione negativa, ma nei film le battute antipolitiche erano genericamente allusive alla corruzione, come per esempio: “A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” (Fifa e arena). La diffidenza verso la politica era soltanto l’aspetto più evidente, e tutto sommato superficiale, della sua sfiducia nella organizzazione della società come garante di giustizia e di eguaglianza di fronte alla legge».
«Mentre nel 1952 girava con Franca Faldini, da poco conosciuta, una scena del film Dov’è la libertà…?, ambientata in un vecchio edificio, fatiscente e maleodorante con “tanfo di cesso, cipolla, umidità”, Antonio, “conscio di mantenere la mimica di Totò”, le disse: “E me lo chiamano neorealismo. (…) Altro che ‘neo’, è un’atmosfera vecchia almeno quanto me: questa schifezza di odore è stato lo Chanel N. 5 della mia infanzia. Ci sono giorni che me lo sento ancora addosso, e allora mi riprende una paura e la smania di arraffare, arraffare contratti, buoni o cattivi, denaro, perché oggi mi vogliono, domani chi lo sa, e io, di un realismo così, ne ho avuto a iosa! Quanto può durare il successo di uno come me? Noi vendiamo chiacchiere. Non è che abbiamo in mano qualcosa di concreto, che so, come un medico, un ingegnere, con la loro brava laurea incorniciata nello studio, che possono faticare all’infinito perché i malati ci saranno sempre e le case mica smettono di costruirle… Il pubblico è una bestia ingrata. Oggi sei sulla cresta dell’onda, ti porta alle stelle, qualsiasi puttanata fai lo diverti, poi magari domattina ti svegli ed è il gelo, non sei più niente, un pallone sgonfiato, e a chi fai ridere, chi ti conosce più? E allora non si alza più una lira. Eh, no, i soldi ci vogliono. I soldi sono necessari, eccome. Entrano ed escono. Bisogna avere soggezione dei soldi. Trattarli con rispetto, non sputarci sopra, altroché”».
«Io devo tutto a Totò, e, se non lo avessi incontrato un giorno per la strada e non l’avessi riconosciuto come il solo amico della mia vita, Dio sa quale sarebbe stato il mio destino. Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Io non l’ho mai saputo, e ne hanno scritte tante a proposito di lui. Certo è un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera la ragione da follia e la follia da ragione. Ne abbiamo passate insieme di tutti i colori. Mi disse, incontrandomi per la prima volta, di non perdere tempo, che avevo proprio la faccia che serviva a lui, e che lo avessi accompagnato, perché saremmo andati a morire di fame insieme. Io fui, insomma, il primo spettatore di Totò, come dire di me stesso. “Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere”. Disse proprio il verbo “patire”, quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. (…) Tutto quello che so fare, me lo ha insegnato Totò, che sapeva l’arte di guardare da vicino la verità della strada. Questo impareggiabile buffone ha uno sguardo come l’obiettivo di una macchina fotografica» (Antonio de Curtis a Fabrizio Sarazani).
«Quando si sentì valorizzato da registi come Lattuada e Pasolini, maggiormente apprezzato dai critici, e più considerato dalla stampa, il principe si mostrò risoluto nel rivendicare l’originalità del suo Totò. Era fiero di affermare: “Non ho frequentato nessuna accademia, nessuna scuola mi ha avuto come discepolo. D’altra parte, sarei stato un cattivo scolaro: ho sempre amato crearmi le ‘mosse’ da me”, come disse in una intervista pubblicata nel gennaio 1966 su Rivista del cinematografo».
«Nel biennio 1965-1967, quando lavorò con Lattuada e Pasolini, il principe ebbe 20 interviste, fra periodici e televisione, mentre furono 15 nel decennio 1954-1964».
«Diversi critici hanno detto che io, Totò, sono un grande attore. Sarei proprio curioso di sapere a quale parte dei miei atteggiamenti comici possa attribuirsi l’aggettivo “grande”. Sono un buon attore, questo sì, anche se sfortunato. (…) Se in fondo a quelle sciocche cose che mi hanno fatto fare si vuol vedere un senso di umanità della mia natura, allora sento il dovere di ringraziare tutti quanti sono carini con me nel dare delle definizioni della mia arte. Però, spesso mi domando come mai solo ora i critici cominciano a scoprire di avere un vero “comico” in casa. Non sono ingiusto se dico così. (…) Sapevo che, prima o poi, avrebbero scoperto Totò. Intendiamoci, io non sono per il “mito di Totò”, perciò non gradisco molto l’aggettivo “grande” accanto al mio nome, ma una giusta valutazione mi piace» (Antonio de Curtis ad Angelo L. Lucano).
«Io ho sempre lavorato, e duramente, per riuscire a far dimenticare al pubblico – anche per poche ore – le cose che lo tormentano durante il giorno. È stato sempre questo, per così dire, il mio pensiero fisso: divertire il pubblico. Cominciai a farlo nel 1920, con le “periodiche napoletane”. (…) Nonostante tutto, non sono mai stato un comico di bassa lega. E, questo, ci tengo, a dirlo» (Antonio de Curtis ad Angelo L. Lucano).
«Gli attributi principali usati dagli studiosi per definire il miglior Totò cinematografico, il più verace, perché anarchico, libertario, sovversivo, antigerarchico, sono tratti dal dizionario della sinistra. (…) In effetti, dalla cinematografia di Totò si possono estrarre facilmente motivi per “buttarlo a sinistra”, ma si tratta, appunto, di una estrazione, che sceglie e isola dai suoi film e dalla varietà dei suoi personaggi alcuni elementi della comicità di Totò, oscurando o ignorando però la visione della vita e della Storia che l’attore esprime, in totale sintonia con il principe De Curtis».
«Sono un attore. Io debbo piacere a tutti. Destre e sinistre per me non contano. Non sono né ambidestro né mancino. Il teatro è composto di tutti gli attori, di tutte le idee. Io sono uno che rispetta le leggi dello Stato, e basta. Se domani l’altro venissero i rossi, i blu o i verdi a comandare, io mi assuefarò. È chiaro?» (Antonio de Curtis).
«Pasolini, (…) non senza immodestia, rivendicava di essere stato l’unico regista ad aver capito e realizzato il Totò più verace, il Totò innocente, perché era riuscito a “decodificarlo”, strappandolo al codice di comportamento “dell’infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata alla sua estrema espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse culturale”».
«Se analizziamo (…) l’arte di Totò, ci accorgiamo che egli tendeva a smascherare non soltanto i conformismi e le ipocrisie contemporanee; ma che, più in profondo, tendeva a deridere ogni illusione sul significato ultimo che, in ogni epoca, viene attribuito alla vita: tendeva a ricordare la fatale fine comune, la vanità di tutte le vanità, la fondamentale amarezza del nostro destino» (Mario Soldati).
«Il principe sosteneva di essere un ribelle, ma nello stesso tempo si dichiarava ostile alla modernità, asseriva di vivere nell’epoca sbagliata, e negli ultimi anni ostentava persino un atteggiamento schiettamente reazionario, come nell’intervista al periodico delle donne comuniste “Noi donne” del 28 maggio 1966: “Sono un uomo antichissimo, antico come idee: non mi piace la musica yè-yè; non ammetto l’uguaglianza delle donne”, anche se, da meridionale, amava moltissimo le donne, perché “la donna è la regina della casa, è la madre dei nostri figli, la compagna dell’uomo, la sua consolatrice, la sua metà…”, ed era convinto che “è sempre la donna che sceglie, l’uomo si fa conquistare”. Il principe, inoltre, vedeva male l’avvenire dei giovani: “Godono troppa libertà, hanno poco rispetto per i genitori”».
«Io sono un uomo all’antica. Io appartengo al secolo scorso, anzi, che dico? al secolo delle Crociate. Il mondo moderno, il mondo d’oggi, per me non c’è. Non esiste. Non lo vedo. Non mi piace. Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, l’ossessione, la volgarità, l’arrivismo, la frenesia, le brutte maniere, la mancanza di rispetto per le tradizioni, le stupide scoperte. Per questo vivo per conto mio, in un mondo mio, da isolato. Un mondo per bene. Lavoro, torno a casa, e mi chiudo qui dentro. (…) Ma cos’è questo affare dei capelloni, dei Piper, dello yè-yè? Cos’è questa roba dei balli moderni, delle minigonne, del toccarsi le cosce ballando? Cosa sono queste schifezze? Ma dove andiamo a finire? Ma quale protesta e protesta? Quelli sono degli scostumati. Quella è gioventù di scimuniti pericolosi. A me piace la gente per bene. Seria. La gente per bene non si mette la maschera. (…) Le donne, il divorzio? Tutti al loro posto. Niente divorzio. Niente libertà sessuale, niente eguaglianza dei sessi e altre schifezze. In casa, l’uomo è l’uomo e la moglie fa la moglie. Se no, mi dice lei dove andiamo a finire? Io sono pronto ad accettare la discussione, le opinioni della donna, la parità dei diritti. Ma il capo di casa sono io» (Antonio de Curtis a Silvio Bertoldi).
«Il principe borghese e reazionario lasciava a Totò il compito di spernacchiare i nobili, i borghesi, i reazionari, ma nello stesso tempo metteva sotto satira (…) tutti i rappresentanti dell’ordine costituito, onorevoli, governanti, alti burocrati e comandanti, l’alto e il basso clero, e metteva in ridicolo le magagne, le ipocrisie, le meschinità della borghesia grande, media e piccola».
«Vanità della vanità, tutto è vanità. Tutto dipende dal destino e dal caso. Una è la sorte per i figli dell’uomo e per le bestie: la morte. Tutto va a un’unica fossa» (Qohélet).
«Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita» (Antonio de Curtis).
«Il principe era categorico: la felicità non esiste. “Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatti di attimi di dimenticanza”, disse a Oriana Fallaci».
«Vedrai, quando sarò morto e non più scomodo per nessuno, daranno la stura ai paroloni e, rispolverando la mia vis comica, affermeranno che se non me ne fossi andato mi avrebbero visto giusto per questo o per quel personaggio, chi meglio di me avrebbe potuto farlo. Non vanno sempre così le faccende a casa nostra? Questo è un bellissimo Paese, in cui però uno ha da morire per essere compreso» (Antonio de Curtis a Franca Faldini).
Antonio de Curtis a Oriana Fallaci, subito dopo averle rivelato di mantenere a sue spese, oltre a venticinque persone, duecentoventi cani: «Signorina mia, (…) un cane val più di un cristiano. Lei lo picchia e lui è affezionato l’istesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene l’istesso, lo abbandona e lui le è fedele l’istesso. Il cane è ’nu signore, tutto il contrario dell’uomo. Guardi gli uomini come si odiano: basta che si sfregiano ’nu poco l’automobile, subito scendono, coi denti fuori, gridando… Il cane, questo, non lo fa. (…) Gli italiani sono proprio cattivi, gli uomini sono proprio malvagi. Quando non c’è una guerra o una rivoluzione per sfogare i loro istinti assassini, se la pigliano con le bestie. Io, guardi: le mosche mi danno fastidio perché sono un salutista, le zanzare mi danno fastidio perché mi pizzicano: ma una mosca o una zanzara, io, non la schiaccerò mai. La vita è sacra e nessun uomo ha diritto di togliere la vita a chi vive».
«Il principe De Curtis si dichiarava “religiosissimo! Vado a messa, mi comunico e ci credo”. Qualche dubbio che parlasse per celia è legittimo. La compagna Franca ha affermato che Antonio non era “particolarmente religioso”, anche se “a modo suo credente lo era. Credeva senza mezze misure nell’Artefice di questo Creato, che non si stancava di ammirare, e su di Lui non ammetteva lazzi o linguaggi irriguardosi”, ma non credeva in “quell’Aldilà prospettato già dalla prima preghiera che ti infilano in bocca, e, anzi, a questo proposito affermava che l’inferno e il paradiso sono entrambi qua, in questo mondo: da quell’altro nessuno era mai tornato a descriverglieli”».
«La generosità di Antonio (…) fu il suo più bel tradimento nei confronti della sua sfiducia negli uomini, tanto da sentirsi comunque contento anche se il beneficato dalla sua generosità non la meritava affatto, o la ricambiava con l’ingratitudine: “È vero, spesso sono stato truffato, ma non per questo voglio diventare diffidente verso i miei simili. La diffidenza rende tristi, pone limiti a noi stessi”. E ridicolizzava la generosità fatta per detrarre dalla dichiarazione dei redditi i soldi spesi in beneficenza, come negli Stati Uniti: “Se per aiutare il prossimo rinunci a qualcosa, fai veramente del bene. Altrimenti che bene è?”».
«Penso che i miei personaggi, anche i più semplici, abbiano fatto per un momento dimenticare a gente modesta, come sono io, le preoccupazioni della vita d’ogni giorno. Ridono e si scordano la bolletta del gas, le ore di lavoro, le liti con la moglie. Escono dal cinema più sereni e forse un po’ più buoni. Di questo sono contento».
«Un anno prima della morte, spiegando come lui intendeva la comicità, il principe concluse dicendo che, se il comico agisce anche “col desiderio di dare un senso umano alle cose che fa e che porge alla gente, per aiutarla a vivere, allora sarà lecito affiancare al suo nome l’aggettivo ‘grande’ oppure ‘ottimo’”».
«Il 13 aprile 1967 girò una scena di un film diretto da Nanni Loy, Il padre di famiglia, dove Totò interpretava il ruolo di un vecchio anarchico. La prima scena, girata in esterni, rappresentava un funerale. Il giorno successivo avrebbe dovuto girare una nuova scena, ma si era alzato molto stanco, perciò fece avvertire la produzione che quel giorno non sarebbe andato a lavorare. Già dalla sera prima aveva provato un certo malessere. (…) Nel pomeriggio lo tranquillizzarono i risultati delle ultime analisi cliniche: il cuore non dava problemi. Ma proprio la notte del 14 aprile il principe soffrì di atroci attacchi cardiaci, e, dopo i primi interventi di assistenza, si rese conto d’essere giunto alla fine. Si strappò il cannello dell’ossigeno e la siringa della flebo, dicendo ai medici: “Lasciatemi in pace”. Erano passate da poco le tre del mattino di sabato 15 aprile, quando Antonio de Curtis spirò nel suo appartamento al numero 4 di via dei Monti Parioli».
«La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato ’nu poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli: per andarci ad abitare da morto. C’è già la tomba, e sopra c’è incisa già la data di nascita e il nome. Il giorno della morte è in bianco. No, non mi importa morire. Mi importa, ecco, invecchiare. Quello proprio mi disturba, mi secca. Sapesse che dramma sentirsi giovani e poi guardarsi allo specchio, vedersi un volto pieno di rughe, una testa di capelli grigi… Gesù! Che schifezza! Cosa dice?! Maturità?! No, no, bella mia: lei non mi incanta coi discorsi sulla maturità. Io vorrei essere immaturo e aver 18 anni. Che dice?! Povertà?! No, no: io me ne infischio, della povertà. Io vorrei essere povero e aver 16 anni. Macché 16! Quindici. Tredici. Nove!» (Antonio de Curtis a Oriana Fallaci).
«Nei suoi ultimi anni, oltre a essere convinto di chiudere in fallimento il bilancio di Totò, il principe era sicuro che nulla sarebbe rimasto della sua opera di attore. La sua soddisfazione per tanti anni di lavoro consisteva solo nella consapevolezza di aver fatto ridere tante persone, distraendole per qualche ora dagli affanni della vita. Non credeva di essere diventato un grande attore: “Ma, anche se fossi diventato un grande attore, cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui”. Il principe De Curtis ha lasciato dopo di lui Totò, che resta ancora nel tempo».