Robinson, 13 marzo 2021
Intervista a Silvio Ramat
C’è qualcosa di particolare e perfino desueto nel modo in cui Silvio Ramat guarda al proprio passato. Un sentimento, che sfiora la devozione, si insinua in quegli intervalli di tempo che chiamiamo memoria e li accorda con il linguaggio poetico.Certo, è rischioso guardarsi indietro provando a raccontarsi con la forza dei versi. Lo ha fatto, magistralmente, Attilio Bertolucci con La camera da letto, e Ramat sconfigge la diffidenza che si prova davanti a una scrittura così rara e rischiosa da esporsi al ridicolo.Gli esiti sono notevoli, perfino commoventi, nel ripercorrere queste biografie poetiche. Ho letto Mia madre un secolo e Banchi di prova, racconti in versi pubblicati qualche anno fa da Marsilio, dove Ramat perlustra le ragioni sentimentali di un secolo ridotte al proprio sentire privato. Egli è poeta e critico letterario. Ha insegnato per quarant’anni a Padova, dove peraltro vive appartato, avvolto da un’eleganza, anche verbale, di altri tempi.Perché ha scelto la forma del racconto in versi?«Forse perché sono un romanziere mancato. Ho sempre invidiato gli scrittori dell’Ottocento, Dickens su tutti. Ma non avevo qualità sufficienti per essere alla loro altezza. La propensione al racconto in versi probabilmente è nata come tentativo di saldare un’originaria vocazione lirica con il desiderio di rappresentare qualcosa di oggettivo, una storia di vicende e pensieri altrui».E ha immaginato di farlo attraverso la figura di sua madre?«Ho cominciato a raccontarne la vita mentre si avviava a conclusione. Morì centenaria. Facevo tesoro di episodi che lei mi riferiva. All’inizio non c’era intenzione di ricavarne materia poetica. Poi cominciai a ordinare il suo lungo racconto, scoprendomi a inventare dal vero un personaggio. E se ci ripenso, a una ventina d’anni di distanza, ritrovo l’emozione per la storia di questa donna prigioniera di un eccessivo pudore. Imparai a conoscerla, se non a capirla».Ne scoprì il talento?«Non so se fu una sorpresa. Forse sì. Ricordo che fece in tempo a farsi leggere l’opera ultimata e mi sembrò meravigliata, quasi compiaciuta, per sé e per il figlio poeta. Improvvisamente, mi apparve davanti una donna diversa dalla figura taciturna che non si apriva in famiglia. Si stabilì tra noi una inedita confidenza. Mi chiedevo chi fosse stata questa donna a lungo chiusa in un esagerato riserbo. E andavo ai suoi anni giovanili, quando, assecondando il talento di scrittrice, pubblicò libri per l’infanzia. Ma io quella persona, che correva di slancio incontro alla vita, posso appena immaginarla. La madre che io rivedo al centro della mia infanzia e della mia adolescenza era talmente presa dagli obblighi familiari da non potersi concedere evasioni creative: “sciupata d’amore e d’amarezza/madre già vecchia a 44 anni”, scrissi».Una famiglia, la sua, che lei definisce “sovversiva”.«Prima che sovversiva, era strana, rispetto alle famiglie di parenti e amici. Più frugale e sobria, difforme nei gusti e nelle abitudini. A me, che ero l’ultimo dei quattro figli, pareva un’atmosfera normale, finché non mi capitò di paragonarla a quella di altre famiglie. Intorno ai 15 anni cominciai a nutrire qualche curiosità sulla nostra storia. Appresi così che nel 1942 mio padre era stato arrestato, per una soffiata e poi dopo qualche mese di carcere spedito al confino nel Molise per espiare il suo antifascismo».Come ricorda quel periodo?«Solo flash che si concentrano sulla visita di noi cinque – mia madre, io e i miei fratelli – al Babbo carcerato al confino. Ricordo la prima parte del viaggio in treno e la luna sul mare di Ancona. Poi prendemmo la corriera per Larino. Mio padre lo scoprii nell’adolescenza, ne ho ammirato il coraggio. E l’impegno civile. Mi inorgogliva sapere che era professore universitario, anche se la scelta di iscrivermi a Lettere, nell’autunno del 1957, fu del tutto autonoma».Lei accenna alle incomprensioni religiose tra i suoi genitori.«L’ateismo di mio padre non è stato un problema per me. Lo fu per mia madre. E ne ho sofferto. Noi figli venimmo educati cristianamente, senza che in famiglia se ne parlasse. Eppure, io che rimasi l’ultimo ad andarmene da casa, avvertii il muro che li separava. La morte di mio padre, nel 1967, in un tragico incidente sull’autostrada del Sole, lasciò in sospeso ogni riconciliazione e in me restò il rimorso di non avervi saputo contribuire».Ha visto andarsene anche un fratello e una sorella.«Molto più tardi, con la rapida morte per malattia nel 1985. Prima mia sorella Giò, se ne andò in febbraio e furono giorni di tacita agonia. Poi Marco, in dicembre. Gli fu diagnosticato un cancro in agosto. Lo portai in una clinica a Roma sull’Aurelia. L’angoscia del prima e del dopo. Poi il ritorno a Firenze e nuovamente a Roma, l’8 di dicembre. Ho un solo ricordo: uno stormo di uccelli, come nuvole nere impazzite, nel cielo della stazione Termini».Firenze è la città dove è nato, dove ha vissuto a lungo e dalla quale non avrebbe mai voluto staccarsi.«Per me Firenze era l’ombelico del mondo. Ogni ritorno da una trasferta mi rallegrava. I miei primi quarant’anni recano questo segno gioioso. Oggi che abito, da un altro quarantennio, a Padova, dove ho insegnato, il rimettere piede a Firenze mi rende inquieto. A parte le ore che trascorro con i miei due figli e con mio nipote, vorrei indugiare nel mio rione, quello di San Gervasio e del campo di Marte, in cui abitavano anche i parenti e gli amici più stretti. Mi piacerebbe fermarmi a riflettere su quella che fu la scena del mio apprendistato alla vita. Ma poi mi dico è già tempo di ripartire, sarà per la prossima volta».Come ricorda il suo apprendistato?«Dopo anni di incerto rendimento scolastico, in preda a patologiche timidezze, trovai l’ardire di avvicinarmi agli scrittori veri, se ne contavano diversi nella mia città intorno al 1960! Betocchi, Luzi, Bigongiari, Parronchi, Gatto, Bilenchi, Bonsanti, Traverso. E poi c’erano i maestri che frequentavo all’università: Longhi, Migliorini, Contini. Mi deluse De Robertis, non me lo sarei figurato così vecchio e ripetitivo. Di Eugenio Garin mi infastidiva la petulante corte dei suoi allievi troppo in gamba.Longhi era impareggiabile, un genio, un mago. Di Contini temo di non aver colto l’intima affabilità coperta da una maniacale recitazione in falsetto.Migliorini ci rendeva godibili i pomeriggi sciorinando con voce acuta il lessico della nostra lingua. Del gruppo dei più politicamente schierati, per lo più comunisti: Luporini, Cantimori, Ragionieri, posso dire di averli conosciuti solo attraverso le testimonianze di qualche eccellente allievo, mio compagno di corso».Lei con chi si laureò?«Rinunciai di chiedere la tesi a Longhi perché pretendeva almeno due o tre anni di lavoro. Mi rivolsi a Walter Binni. Non mi entusiasmavo alle sue lezioni, però mi dette una tesi su Montale, che era già da anni il mio poeta. Mi laureai nel 1962. L’anno prima Vittorio Sereni, di passaggio a Firenze, volle incontrarmi. Gli erano piaciuti i miei versi e mi invitò a prepararne una raccolta per una nuova collana mondadoriana».Tra i poeti so che amava c’era T.S. Eliot.«Mi appassionai alla letteratura inglese e in particolare a The Waste Land. Mi colpì quella poesia gremita di citazioni, di richiami alle fonti più disparate. Non assunsi quel poemetto tra i miei “modelli” perché me ne sentivo intimidito. Ma fu per il tramite di Eliot che mi accostai via via a Pound e Yeats, a Dylan Thomas e Auden, risalendo più su fino alla Dickinson».Che poeta ritiene di essere?«Qualcuno ha notato che dalle raccolte giovanili, fedeli a un canone grosso modo “post-ermetico”, sono passato a una discorsività più vicina alla prosa quotidiana, a una sospensione del predominio lirico.Come se un modello Sereni si combinasse con il mio “fiorentino” originario e come se la vicinanza alle terre di Zanzotto mi prestasse qualcosa del funzionale disordine di quell’estroso poeta».La definiscono eclettico.«Il mio eclettismo nasce probabilmente da questo porgere ascolto a sirene molteplici. Non lo considero una debolezza, ma il cedimento a una buona intenzione».Giudica un cedimento la passione per le canzoni e il calcio?«Cedere non è arrendevolezza, in certi casi è come lasciare il passo a un ritmo diverso. Certamente le canzoni echeggiano in mille circostanze della mia vita. Almeno fino agli anni settanta del secolo scorso. In questo so di essere in buona compagnia. Colonna sonora di innamoramenti dall’adolescenza in poi, oggi sul pc le ritrovo tutte senza fatica».Immagino abbia una sua play list.«Ho adorato i Platters, mi piaceva Unchained Melody e le canzoni sentimentali di Pat Boone; da noi Mina, Endrigo, la Vanoni, Lauzi. Ma chissà quanti altri dovrei citarne. A volte è una sola canzone a isolarsi nel repertorio di un cantante: per esempio Ma che freddo fa, la voce acerba di Nada che risuona dall’altoparlante dello stadio nell’intervallo di un Fiorentina-Cagliari, nel gelido febbraio del ’70, l’anno che lo scudetto passò appunto dai viola al Cagliari di Gigi Riva».La Fiorentina lo vinse l’anno prima.«Lo scudetto 1968-69 era stato una pallida replica di quello del 1955-56, quando la Fiorentina patì una sola sconfitta all’ultima giornata. Allora il calcio era la parte eroica della mia vita. Abitavamo a due passi dallo stadio e cocente era il disappunto le volte che a me e a mio fratello Paolo, per il tempaccio o per altra causa, non davano il permesso di andarci.Dovevamo a Marco, promettente calciatore, questa passione irresistibile».L’ha conservata?«Quella passione è ormai svanita, tanto che mi capita perfino di addormentarmi dinanzi al televisore guardando un incontro di Coppa o di Campionato. La Fiorentina da tempo mi sembra ridotta a una cosa sgangherata che non merita attenzione. Dovessi ricominciare, oggi tiferei per l’Atlanta».Si possono accostare il poeta e il calciatore?«Raramente, ma accade. E allora entrambi si confondono nel mistero».Che nome è Ramat?«La famiglia Ramat proviene dalla Savoia o dal Delfinato, non ne sono sicuro. Ma già nel Seicento era in Val di Susa, dove una frazione montana di Chiomonte è denominata Les Ramats. Mio fratello linguista pronuncia la “t” finale sostenendo che si tratta di un cognome franco-provenzale. Ma in casa pronunciavamo Ramà. Il nonno paterno era di Susa. Ufficiale dell’esercito, dal 1910 si stabilì a Firenze.Mio padre Raffaele, per me soltanto Raf, era nato nel 1905 a Viterbo, la città di origine di mia madre».È vero che suo padre volle seguire D’Annunzio nell’impresa di Fiume?«A 15 anni, devoto di Gabriele, come migliaia di suoi coetanei, si era messo in testa di raggiungerlo a Fiume. Il tentativo finì ancor prima dell’epilogo della sfortunata impresa. Trasmise al mio orecchio la musica del D’Annunzio più suadente».Che definizione darebbe della poesia?«Un poeta che mi fu amico, Nelo Risi, ne sintetizzava così l’essenza: “La poesia è verità/intuita con ritmo”. Splendido, ma poi che significa? La definizione è sempre incerta, ingabbia ciò che per vocazione è libero».La relazione con sua madre, e viene in mente Proust, sembra nata sotto il segno della costrizione.«Direi una necessità che mi ha reso più libero. Non vedo però somiglianze con Proust. La persona di mia madre, in quel che ho scritto di lei, incarna quasi ovunque la non-felicità, la non-giovinezza; esiste come doloroso emblema di un’etica della rinuncia, cui si addice la parola “cristiana”.