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 2021  marzo 13 Sabato calendario

Intervista a Gustavo Zagrebelsky. Parla dell’Italia (non troppo) unita


«L’unità d’Italia? È un compito sempre nuovo e mai definitivamente eseguito». Il significato civile del centosessantesimo anniversario nella riflessione di Gustavo Zagrebelsky, l’insigne costituzionalista che via mail offre una sua interpretazione dell’Italia e degli italiani.
Che cosa le suggeriscono queste due parole: unità e Italia?
«Domanda difficile, a cominciare da Italia. Ci sono parole che usiamo tutti i giorni credendo di sapere. Quando ci interroghiamo, entriamo in confusione.
Per questo, forse, non ci interroghiamo.
La Costituzione inizia con questa venerabile parola, Italia, e l’aggettivo italiano e italiana compare numerose volte; ma se lei prendesse i trattati di diritto costituzionale si accorgerebbe che la domanda su che cosa sia l’Italia è quasi sempre elusa. Eppure, una risposta sarebbe molto importante. Non possiamo accontentarci di dire che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Repubblica, democrazia e lavoro sono caratteri dell’Italia; funzionano da aggettivi, ma qual è il sostantivo?»
Proviamo a darne una definizione.
«Sì, ma non le prometto nulla. La prima cosa da chiederci è: Italia è un contenitore o è un contenuto? Ci può essere il contenitore senza contenuto e, viceversa, un contenuto senza contenitore?».
Che cosa intende?
«Potremmo dire che il contenitore è un pentolone e il contenuto è ciò che dentro bolle e ribolle. Le piace l’immagine?
Soprattutto spiega che cosa è ciò di cui celebriamo i 160 anni: il pentolone che ha sostituito i pentolini di prima. Detto in termini più classici: celebriamo lo Stato unitario, figlio del Risorgimento».
L’Italia di prima era soltanto una “espressione geografica”, secondo la celebre definizione di Metternich?
«Sì e no. Sì, dal punto di vista politico: il fautore della Restaurazione imperiale dopo la scossa napoleonica non poteva non prendere atto della debolezza politica dell’Italia suddivisa in staterelli.
Tuttavia l’Italia non era affatto un’espressione geografica da altri punti di vista. Non lo era da diversi secoli, anche in assenza di uno Stato. Era la sorgente e il deposito della cultura moderna dove venivano a nutrirsi artisti, letterati, aristocratici e uomini di Stato.
Era il Grand Tour, tappa obbligata della formazione d’ogni persona, uomini e donne, appartenente alla “crema” dell’Europa. Anche Metternich fece i suoi bravi “viaggi in Italia” come tanti altri personaggi nei secoli XVIII e XIX, Goethe e Madame de Staël, per esempio.
Ma anche prima, Roma soprattutto, era una tappa obbligata per essere accettato negli ambienti intellettuali che contavano. Erasmo lo testimonia».
Tutto questo riguarda la nazione culturale, che è pero altra cosa rispetto all’unità statuale. Per tornare alla sua immagine, riguarda “il contenuto”.
«Certamente non riguarda il pentolone.
Anzi, è la riprova che contenuti fiorentissimi possono farne a meno.
Qualcuno, poi, ha sostenuto che il declino culturale in Italia è coinciso con la formazione dello Stato, cioè del contenitore. Oggi, il viaggio in Italia è stato soppiantato dalle agenzie di turismo, il che, peraltro, non è fenomeno solo nostrano. Coincide con la globalizzazione e la democratizzazione dei consumi, anche culturali e, inevitabilmente, con il livellamento».
Esiste un’ampia pubblicistica che ha messo sotto accusa la formazione dello Stato nazionale, senza considerare l’enorme progresso ottenuto con l’unificazione.
«Non bisogna dimenticare che le delizie della cultura erano privilegio d’una ristretta élite, sotto la quale stavano le masse di analfabeti, di degradati nel corpo e nello spirito, di seguaci di superstizioni, di esposti alle prepotenze e a credenze medievali: tutte cose che erano delizie a vedersi per i colti e illuminati viaggiatori che descrivevano con meraviglia le condizioni delle plebi italiche. Lo Stato unitario per come si è formato, insieme alla sua componente autoritaria e omologante, ha potuto condurre politiche per l’istruzione popolare, per la salute, per la legalità, per la protezione del territorio, per l’industrializzazione, in due parole: per il progresso e la modernizzazione (con ciò che di buono e di cattivo queste parole contengono)».
E gli italiani? I cittadini moderni
vagheggiati da Massimo d’Azeglio sono finalmente nati?
«Questa domanda induce a guardare che cosa c’è dentro “il pentolone”. C’è di tutto. Poniamo mente alle forze alle quali ci siamo affidati per creare una unità di popolo dal Risorgimento fino a poco fa.
La prima – è terribile doverlo ammettere – è stata la guerra, la Grande Guerra che per molti interventisti doveva servire a fondere le masse popolari e a promuovere un sentimento comune di appartenenza. Unità costruita sulle stragi! Per dire che si sia riusciti, bisognerebbe credere alla propaganda patriottarda, alle canzoni dal fronte, alla retorica della patria in armi; e ignorare “l’altra guerra”, narrata dalle trincee, dal dolore per i morti e i feriti, dalle lettere censurate, dalle imprecazioni urlate e cantate. Dire che i circa 600 mila italiani morti (nessuno conosce la cifra esatta) abbiano “fatto gli italiani” è poco probabile, e sarebbe tragico se così fosse: che l’Italia popolare si sia fatta uccidendo ed essendo uccisi. Certo è che le sofferenze in trincea hanno creato fratellanza ma, fuori della trincea, è più probabile il contrario: che si sia alimentato l’odio tra chi subì la carneficina e le classi dirigenti che la ordinarono».
Le cose non andarono meglio sotto il regime fascista.
«Figlio della guerra, il fascismo raccolse a suo vantaggio le frustrazioni popolari.
Anche il fascismo operò per creare unità tra le masse: la cosiddetta “nazionalizzazione delle masse”. Ma al prezzo della perdita della libertà e di una ancor più orribile guerra. Alla fine, altro che solidarietà tra gli Italiani: ci fu la peggiore delle spaccature nel periodo della Resistenza, nel quale abbiamo conosciuto perfino una guerra civile. I suoi strascichi non sono venuti meno nemmeno oggi».
La Costituente ha rappresentato uno dei rari momenti unitari della storia d’Italia.
«La Costituzione fu un grande momento di unità che ha aperto faticosamente la strada a riforme nel senso della giustizia sociale: questa sì è la vera forza che può unire un popolo, farlo sentire parte d’un cammino comune nel segno della solidarietà e della democrazia».
Oggi sono tante le voci che denunciano spaccature profonde. E la pandemia ha finito per aggravare diseguaglianze già presenti. Pensiamo alla divisione tra “garantiti” e “non garantiti”, disoccupati, sottooccupati, sfruttati. I poveri aumentano e i ricchi concentrano ricchezze crescenti.
«Sì, potremmo continuare tracciando una mappa dei mali d’Italia: mali che stanno dentro il pentolone ma rischiano anche di incrinarlo. C’è una spaccatura tra il potere che si svolge alla luce del sole nelle istituzioni democratiche e il sotto-potere nascosto in cricche, sodalizi spesso al limite o oltre il limite della legalità. Il crimine non è solo fuori, ma anche dentro le istituzioni. L’Italia, a onta del suo aspetto bonario, leggero, spensierato è – diceva Norberto Bobbio – un paese terribile che non rifugge dal delitto politico. Magari non più di altri, ma certo non meno di altri. Altra devastante spaccatura è tra coloro che partecipano alla vita comune sostenendone i costi e chi si sottrae: è questo l’esercito degli evasori fiscali, i parassiti che non meriterebbero di godere degli stessi diritti dei primi.
Ancora: la “questione meridionale”, la “questione femminile” e molte altre questioni. Ora però mi fermo».
Queste disparità contribuiscono alla disunità o nell’emergenza potrebbe scattare una reazione opposta?
«Dipende dallo spirito pubblico. Se non esiste un senso di appartenenza forte e diffuso, le difficoltà dividono, aumentano la conflittualità nel segno del “si salvi chi può”. Dove esiste, invece, può essere che prevalga la solidarietà».
Qual è allora il senso civile di queste celebrazioni?
«Le celebrazioni servono se inducono a concentrarci sui nostri problemi. Il Risorgimento e il 1861 stanno al loro posto nella storia e, soprattutto ai nostri giovani, non dicono molto.
Probabilmente la stessa data che stiamo ricordando – il 17 marzo – è ignota ai più.
Nel senso profondo di unità nazionale, l’Unità d’Italia che ci sta a cuore è un compito sempre nuovo e mai definitivamente eseguito, soprattutto se ne si guarda l’aspetto sociale. L’Unità si difende anche accettando i sacrifici necessari per aiutare chi è in difficoltà.
Spero che l’anniversario sia un’occasione per riflettere sui nostri nuovi doveri».