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 2021  marzo 13 Sabato calendario

Biografia di Giuseppe Garibaldi

 Il suo Peppino mamma Maria Rosa lo sognava prete. E lui “don” diventò, poco prima dei suoi trent’anni. Don José Garibaldi venne chiamato ed era tutto tranne che un prete: anticlericale, rivoluzionario, esule, cospiratore, condannato a morte in contumacia dallo Stato piemontese, guerrigliero al servizio degli insorti del Rio Grande, Montevideo, Paraná, corsaro nei mari di quell’America latina che un secolo dopo altri rivoluzionari con quasi le stesse barbe seppur fumando sigari diversi avrebbero ripercorso inseguendo l’orizzonte di libertà tracciato da quell’eroe italiano. Come tutti i preti mancati, che conservano un’indispensabile dose di santità per lottare contro qualsivoglia chiesa, don José non abbandonò mai la sua vocazione laica, incontrata, come spesso accade ai pescatori di uomini, su una barca diretta a Costantinopoli. “Straniero in patria” per via delle alterne vicende della natia Nizza, marinaio di professione, cosmopolita per indole e capitano per inclinazione, sentì la chiamata ascoltando i discorsi dei passeggeri. Parlavano di un tale Saint- Simon che aveva predicato la libertà dei popoli, di tutti i popoli, da ogni tiranno e soprattutto di un tale Giuseppe Mazzini, che il giovane Peppino riteneva un messia, non sapendo che quell’uomo venuto ad annunciare l’avvento di un’Italia libera, unita e repubblicana non era che un Battista e che il messia era in realtà lui, secondogenito di quattro di pae Domenico da Chiavari, marittimo, e di Maria Rosa Nicoletta Raimondi da Loano, casalinga, che gli aveva messo come secondo nome Maria perché la Madonna ci mettesse un occhio su quel suo figeu tanto inquieto quanto bello, biondo e con una barba che sembrava, davvero, il messia.E come in tutte le vite dei santi, degli eroi, dei poeti e dei navigatori, dopo l’apprendistato e la scoperta della propria missione, ritroviamo Garibaldi di ritorno in Italia dall’esilio in Sudamerica. È il 1848, l’anno divenuto un modo di dire: l’Europa è in fiamme, i popoli chiedono libertà e costituzioni, l’Italia ( che non esiste se non come accozzaglia di stati e staterelli), o meglio il Norditalia, è alle prese con la sua prima guerra di indipendenza contro l’Austria.Da qui comincia, fino alla morte nel 1882, la seconda vita di Garibaldi, già eroe dei due mondi, quindi difensore estremo (e inascoltato) della Repubblica Romana stroncata per mano francese, capitano di truppe irregolari in tre guerre di indipendenza, cacciatore delle Alpi, eroe dell’Italia unita, incubo di Bismarck che se lo ritrovò a difesa della neorestaurata Repubblica francese ( Garibaldi non serbava rancori nazionalistici se si trattava di lotta per la libertà), fondatore della prima società di protezione degli animali, fuggiasco se si metteva male dal Bosforo all’Africa, da Tunisi a Londra, da New York a Tangeri all’esilio a Caprera, spesso e volentieri interrotto perché «quando mi parlate di libertà dei popoli, il mio orecchio è sempre ad ascoltare».Per la sua più grande impresa il popolo si mostrò più grato dei sovrani cui Garibaldi la regalò. Partì da Quarto con mille volontari ( 1089 in realtà) sotto l’occhio attento di Cavour pronto, se fosse andata bene, a entrare nella partita oppure, in caso di disfatta, a mollare quella combriccola di sognatori, molti intellettuali, vestiti con qualche camicia rossa, giacche da caccia, cappelli con piume di struzzo, guidati da un laicissimo Gesù Cristo con il poncho. Andò bene all’Italia che si ritrovò unita al Volturno, seppur senza Roma e il Nordest. Andò meglio a Cavour e a Vittorio Emanuele che si trovarono un nuovo regno praticamente gratis. Andò peggio ai volontari che ormai a migliaia gonfiavano le fila dei garibaldini che si trovarono, con l’altra mezza Italia ancora da fare, congedati o mai del tutto integrati nell’esercito regolare. Peggio di tutti andò ai nuovi italiani del Sud che per cinque anni si trovarono insanguinati da quella che qualcuno chiama lotta al brigantaggio, per altri è occupazione, ma ciò che importa è che chi sognava che la miseria e la fame sarebbero finite con l’Unità si era risvegliato povero e affamato come prima.Non c’è bisogno di essere convinti secessionisti o federalisti, neoborbonici o papalini: per denigrare Garibaldi ci sono molti modi, a partire dalla sua ingenuità, dal suo stile letterario, dal suo scarso se non inesistente intuito politico. Ma non c’è dubbio che ogni critica all’uomo raccontato da Dumas, onorato da Hugo, chiamato invano due volte da Lincoln come generale (carica che gli eserciti regolari nostrani erano piuttosto restii a riconoscergli) per la sua guerra contro la schiavitù, può condensarsi in una sola: un idealista usato dal potere di turno per la sua popolarità, oltre che per le sue incredibili doti tattiche e militari ( ancora più sorprendenti se si considera che mai venne fornito di armi ed equipaggiamenti minimamente adeguati alle imprese).Un burattino nelle mani dei vari Mazzini, Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Cavour, La Marmora, Cialdini, Rattazzi, Crispi: troppo ingombrante per essere fermato, troppo indipendente per essere arruolato, troppo onesto per essere comprato, troppo frugale per essere corrotto. Questo il giudizio politico che ancora oggi aleggia sull’uomo che fece l’Unità d’Italia, tolto dalla retorica e dal piedistallo delle tante statue su cui è stato innalzato in ogni piazza, o dal peso del sarcofago di pietra a Caprera che lui non voleva preferendo la luce di una pira al buio di una bara.Ma ai sottili esegeti dell’arte della politica sfugge la prospettiva di Sun Tzu sull’arte della fuga. La vera grande impresa di Garibaldi non fu una campagna di conquista, fu appunto una fuga. Due luglio 1849. La Repubblica Romana è capitolata sotto i colpi dei francesi venuti a restaurare il papato e a mettere fine al primo simbolo di unità politica degli italiani. Garibaldi con quattromila volontari (alla fine del viaggio resteranno in poche decine) esce dalla città per continuare la guerriglia nel resto della penisola. È diretto a Venezia, dritto contro gli austriaci. Lo inseguono cinque eserciti. Mal contati sono 30mila francesi, 12mila borbonici, seimila spagnoli, 15mila austriaci, e un paio di migliaia di toscani del granduca. Non riusciranno a prenderlo.Perché l’uomo che trasformava volontari senza «né paga né quartiere né provvigioni» in soldati di professione era lo stesso che fin da giovane parlava di libertà nelle osterie dei porti, ai marinai, ai contadini, agli esuli, ai piccoli commercianti e artigiani. A tutti. E il popolo italiano che non sapeva di esserlo ma che ben sa da sempre riconoscere le intenzioni prima ancora delle azioni, capì che quello strano Cristo ligure che parlava di unità e fine della tirannia andava difeso, aiutato, protetto. Non ci fu casa che non lo ospitò, sentiero segreto che non gli venisse indicato durante la fuga, pane, giaciglio o sepolcro per Anita non sopravvissuta a quella marcia forzata, che gli si negasse. Non fu uomo della provvidenza come altri cui il nostro paese si è spesso affidato nella sua antica e giovane storia. Fu l’uomo in cui si rispecchiarono gli uomini di buona volontà. Quelli che, colti o illetterati, ricchi o poveri, del nord o del sud conoscono la fatica che costa fare ciò che va fatto perché è la cosa giusta. E che quel biondo messia democratico, laico, repubblicano venuto dalla fine del mondo aveva tradotto con: «Qui si fa l’Italia».