Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  marzo 13 Sabato calendario

Vittorio Emanuele II Un sovrano senza qualità


Re Galantuomo, ma non troppo, che già il titolo suonava infelice: se solo il sovrano è galantuomo, notavano con perfido acume i gesuiti, cosa si potrà pensare dei sudditi?
Nella vasta pubblicistica dell’anti- retorica la figura di Vittorio Emanuele ondeggia fra il bullo e l’orco. Una specie di Shrek astuto, insieme smargiasso e coraggioso, scialacquatore e capriccioso, egoista e vorace, ma pieno di vitalità. Un omaccione che si tingeva baffi e capelli col lucido da scarpe, si allentava la cinta dei pantaloni a tavola ed emetteva talvolta pubblici peti. Ecco, costui si ritrovò quasi per caso alla guida dell’Italia unita: non tanto una nuova nazione, quanto un ex staterello prolungatosi per avventura fino al capo Lilibeo. Così, più che il primo re d’Italia, volle restare Vittorio Emanuele Secondo. Assolutista, ma senza aver tolto lo Statuto ai liberali; autoritario per quanto dovesse vedersela con politici molto più abili di lui.
Bellicoso, comunque, perché era meglio che gli italiani si facessero temere che stimare; e tuttavia geloso come un bimbo dei successi militari di Garibaldi. Sul campo ottenne vittorie e patì sconfitte con gli austriaci (con i cui regnanti era imparentato), mentre riuscì a districarsi con la Francia di Napoleone III, anche se poi, essendo un sovrano un po’ selvaggio, non si fece scrupolo di chiedere all’imperatrice se era vero che le donne francesi giravano senza mutande.
Tutto lascia pensare che fosse sex addicted, un gradino sopra al bunga bunga. Secondo alcune testimonianze o plausibili fantasie nottetempo poteva svegliarsi invocando a gran voce “una femmina! Voglio una femmina!”, come lo zio Teo in Amarcord, e gli aiutanti dovevano procurargliela nei bordelli secondo un format prestabilito.
Ebbe otto figli dalla povera moglie, altri dall’amante ufficiale Rosa Vercellana, la “bela Rosìn”, appena possibile creata contessa di Mirafiori, e altri ancora in numero considerevole battezzati col cognome “Guerrieri” o “Guerriero”. Gli piaceva giocare a biliardo, adorava i cani, i cavalli, le armi, il tiro a segno. Un suo amico calcolò che la caccia, dall’orso alle allodole, gli abbia preso un terzo dell’esistenza e uno dei pochi rimpianti fu di aver mancato i bisonti nel Far West. Lanciò, è vero, il “grido di dolore”, ma non si direbbe che l’unità d’Italia e più ancora quella degli italiani fosse al centro delle sue passioni privilegiandone il governo con le baionette o la corruzione. Cercò di acquistare Venezia e forse di scambiarla con la Toscana, visse malvolentieri a Firenze e una sola volta visitò Napoli. Dopo la spedizione dei Mille corse anche voce che volesse sbarazzarsi del Mezzogiorno, comunque concepito trattato alla stregua di una colonia, impoverimento e legge marziale. Né mai sentì il fascino di Roma. Quando gli proposero di entrarvi con l’elmo di Scipio rispose che era buono per cuocerci la pastasciutta.
Fino all’ultimo, prima di essere stroncato da una febbre malarica, Vittorio Emanuele vagheggiò di farsi promotore di una mega spedizione bellica in Grecia, sul cui trono voleva piazzare qualche parente, e nei Balcani. A tal fine aveva messo su una sorta di diplomazia parallela di famigli, spioni, lestofanti, signorine intraprendenti. Dopo tutto si trattava soltanto di far fuori il Sultano, deportarlo in qualche lontano paese dell’Asia, e consentire alle potenze europee di “papparsi” quel che volevano; lui, magnanimo, si sarebbe tenuto quelques petites choses, qualche cosetta.
Non parlava italiano, ma francese e soprattutto piemontese. Era sboccatissimo. Al momento di affidare il governo a Cavour, che mal sopportava pur tenendoselo buono, se ne uscì: quello lì “an lo fica ant’al prònio a tuti!”. Solo quando il Conte morì prese a vantarsi che i vari presidenti erano sue marionette. In realtà Ricasoli gli si mise di traverso, per cui gli preferì Rattazzi; e rispetto alla storica Destra di Lanza e Sella si trovò assai meglio con la Sinistra di Crispi e Nicotera che non lo ostacolavano nelle ricche spese di corte e nei guadagni personali. Avido di quattrini, lucrò su tabacchi, ferrovie e beni ecclesiastici confiscati. Più superstizioso che credente, da principio ebbe terrore della sacra iettatura lanciatagli addosso da don Bosco e dai clericali.
Ma concluso il Risorgimento prese a ritenersi soggetto provvidenziale e sosteneva che Dio aveva voluto punire Pio IX che l’aveva scomunicato – per quanto in punto di morte il pontefice gli revocò l’interdetto. Come tomba voleva Superga ed ebbe il Pantheon. Ma siccome l’Italia era già l’Italia mai mancarono melodrammatiche dicerie secondo cui il neonato Vittorio Emanuele non era un discendente Savoia, ma il figlio di un macellaio che si chiamava Tanaca – e se il cognome suona addirittura giapponese è anche questo un fatto tutto nostro, ché qui non si smette mai di divertirsi.