Robinson, 13 marzo 2021
17 marzo 1861 Buon primo giorno Italia
Scostò le grandi tende rosse dell’ingresso, come per far passare la storia. Poi l’architetto Amedeo Peyron si fermò sulla soglia, guardandosi intorno. Il legno scricchiolava nel semicerchio gigantesco, il vetro lasciava entrare la luce incerta dell’inverno torinese, alle otto del mattino, il ferro reggeva tutto, nascosto sotto le colonne chiare, i fregi, gli stucchi intervallati dalle coppie di bandiere: i 600 scranni ricoperti di velluto, i due ordini di tribune per 450 ospiti, il maestoso pulpito per il sovrano, circondato da un manto sollevato e aperto, sormontato da una corona. Avevano lavorato 113 giorni, qualche volta anche di notte, per costruire nel cortile di palazzo Carignano – dov’era nato Vittorio Emanuele II – la nuova aula della Camera per i deputati, che in seguito ai plebisciti di annessione prima della Toscana, delle Marche, di Parma e Piacenza e poi del regno delle Due Sicilie erano passati da 204 a più del doppio, 443, e non potevano più essere ospitati nella vecchia sede del parlamento subalpino, ricavata nel salone delle feste.
Con una lettera urgente al ministro della Giustizia Cassinis, firmata il 27 ottobre del 1860, era stato direttamente il capo del governo Camillo Cavour a chiedere di avviare subito i lavori per la nuova Camera, mentre il Senato, di nomina regia e vitalizia, si riuniva a palazzo Madama. Poco più di tre mesi. Adesso l’architetto aveva finito, poteva tornare alla sua passione dell’ingegneria ferroviaria e guardare dalla tribuna, in mezzo al pubblico, l’Italia che entrava in parlamento, il 18 febbraio del 1861: era un lunedì. Il Conte di Cavour, che aveva voluto le due costruzioni, quella istituzionale e quella materiale, tra poco si sarebbe mostrato alla sinistra del re, ma in terza fila, in piedi, accanto al generale Manfredi Fanti, fondatore del regio esercito, e a Terenzio Mariani, ministro della Pubblica istruzione. La geografia politica, in quel mondo nuovo, era ancora un po’ casuale.
Dalle balconate i cittadini che erano riusciti ad entrare cercavano con lo sguardo Giuseppe Garibaldi, e intanto scoprivano Urbano Rattazzi in ottava fila, il ministro dell’Interno Marco Minghetti in quarta, Alessandro Manzoni in seconda, per poi trovare finalmente il Generale in quinta fila, seduto silenzioso e attento proprio dietro Massimo d’Azeglio. Quella sede provvisoria, in un cortile, radunava tutti come se fosse il momento di chiudere la stagione della Seconda guerra d’indipendenza, delle insurrezioni e delle annessioni, dell’impresa dei Mille, dell’incontro di Teano tra il re e il capo delle camicie rosse, e confermava l’idea della grande trasformazione in corso dal piccolo regno di Sardegna, con 5 milioni di abitanti, ai 21 milioni di cittadini dell’Italia, sia pure incompleta, perché mancavano Roma e le Venezie. Poche centinaia di metri, tra palazzo Reale e il Carignano, dove i dignitari attendono il corteo, aperto dalle altezze reali il Principe di Piemonte e il Duca di Aosta. Ma i sei cavalli bardati che muovono le ruote in legno della carrozza dorata di gala del sovrano, col blu Savoia, le otto molle di conforto, le sette luci con cristalli mobili, in realtà compiono un viaggio da un’epoca all’altra, come ha capito la folla che applaude il re, in piazza Castello, e poi in via Lagrange. Solo due anni prima, il 10 gennaio 1859, leggendo un testo scritto da Cavour e approvato da Napoleone III, Vittorio Emanuele si era dichiarato «non insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». Era l’inizio. Adesso quasi tutto era compiuto.
Ascoltato il giuramento dei nuovi parlamentari, ecco che il re apre il discorso della Corona, rivolgendosi subito all’Italia, «libera e unita quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli, e per lo splendido valore degli eserciti», pronta a tornare ad essere «una guarentigia di pace e un efficace strumento della civiltà universale». Un omaggio all’Imperatore dei francesi, legati all’Italia da «un nodo indissolubile», un ringraziamento agli aiuti dell’Inghilterra «di cui durerà imperitura la riconoscente memoria», un saluto al sovrano di Prussia, per persuaderlo «che l’Italia costituita nella sua unità naturale non può offendere i diritti né gli interessi di altre nazioni». Poi un impegno: «Devoto all’Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona. Ma nessuno ha il diritto di cimentare la vita e le sorti di una nazione». C’è solo un accenno al sangue delle battaglie con le truppe borboniche, l’auspicio che sia chiusa per sempre «la serie dolorosa dei nostri conflitti civili»; e appena un passaggio, senza citarlo per nome, su Garibaldi, «il Capitano che riempì del suo nome le più lontane contrade». Oggi, conclude il re, la nazione ha «una grande confidenza nei propri destini. E io mi compiaccio di manifestare al primo parlamento d’Italia la gioia che ne sente il mio animo di re e di soldato». Nella risposta del parlamento, pronunciata dal deputato Luigi Carlo Farini, c’è un passo in più: «I suffragi di tutto un popolo pongono sul vostro capo benedetto la corona d’Italia».
A Torino la festa dura fino a notte avanzata. Le quattro legioni della Guardia nazionale sono schierate in tenuta da parata dal mattino, nel pomeriggio il corpo di musica diretto dal maestro Camillo Demarchi, con cento coristi guidati da Luigi Rossi, esegue in piazza Castello le musiche della Gazza ladra e dell’Aroldo, La Battaglia di San Martino, le introduzioni all’Ernani e agli Orazi e Curiazi, il preludio, il brindisi e i duetto della Traviata, un valzer e una polka, prima di chiudere con l’inno nazionale. Poi tocca ai “fuochi d’aria artificiati” accesi dall’artigiano pirotecnico Ardenti, che «abbruciano» attorno alla Gran Madre con 300 razzi assortiti con piccole bombe, 10 batterie di candele romane, 12 razzi a paracadute e 200 razzi matti, 12 tortiglioni, un contrasto di 80 bombe, 50 bombe variopinte accompagnate da due serie di castagnole, per arrivare all’innalzamento di un pallone di 12 metri illuminato da 40 fiamme esplosive, e infine ai bengala che illuminano a giorno il peristilio della chiesa.
L’eco di altre esplosioni si è appena spento. Cinque giorni prima si era arresa Gaeta dopo 102 giorni di assedio piemontese e 826 soldati morti nella fortezza, da dove è partito per Roma col suo seguito, ospite del Papa, Francesco II di Borbone, sulla nave da guerra francese Mouette. La cronaca narrata in napoletano da Lu Trovatore fotografa la giovane regina Maria Sofia che sta «paricchio tiempo sola a la polla de lo bastimiento, appojata ’ncoppa a lo parapietto e contempranno gli scuoglie de Gaeta». Il brigantaggio si riveste politicamente con la resistenza al nuovo regime, spalleggiato dal re spodestato: «Coloro che assaliscono uno Stato in pace vengono chiamati galantuomini, mentre vengono chiamati assassini e briganti quegli infelici che difendono l’indipendenza della loro patria – dice Francesco II –. In questo senso anch’io tengo per un grand’onore di essere un brigante».
Ma i piemontesi commissionano ai cantastorie ballate ideologiche per screditare in musica i ribelli, come Vita e morte del brigante Chiavone: «Ei di sue imprese ignobili diede feroce un saggio/ quando diessi a percorrere l’infame brigantaggio/ Nemico della patria e della libertà/ per conto di un Borbone lasciava la città/ Ognun detestasi il perfido Chiavone/ che fu brigante celebre nei fasti del Borbone».
Ma la nuova Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dà l’annuncio delle «ricompense accordate da Sua Maestà per la campagna di guerra in Bassa Italia», con un lungo elenco d’onore che parte dai generali, i luogotenenti, i colonnelli e i capitani, passa ai medici e ai cappellani, ingloba i furieri, tocca i musicanti come Bastia Matteo e Carassio Michele, ricorda il falegname Sannia Giovanni, e arriva al tamburino Grandezza Stefano.
A Roma spuntano ovunque coccarde tricolori, stemmi con la croce sabauda. A Napoli il cardinale Sisto Rimario denuncia «i semi di protestantesimo razionalista, che porteranno a chiudere le chiese», ma un corteo accompagna il busto di San Gennaro nella chiesa di San Giuseppe per rendere omaggio a Garibaldi a tre giorni dal suo onomastico. A Torino hanno appena portato un orologio francese e un datario sui banchi del Parlamento, e hanno lucidato le palle bianche e nere che serviranno per la votazione che cambierà il volto del Paese, iscritta nell’ordine del giorno del 17 marzo1861: la proclamazione del Regno d’Italia, «affinché il nuovo Regno possa presentarsi nel consesso delle nazioni col glorioso nome che gli compete». Leggendo due pagine scritte a penna, Cavour presenta così il disegno di legge 4671, in un solo articolo: «Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia». Il deputato Brofferio chiede di aggiungere che il Re «è proclamato dal popolo», ma Cavour lo invita a ritirare la proposta. Si vota, i presenti sono 294, i favorevoli 292, due deputati si sono confusi, deponendo la palla di colore sbagliato nell’urna.
Nell’aula risuona l’applauso finale, o forse iniziale. Il Papa ha appena promesso battaglia con parole dure nel Concistoro: «Non cedo ai consigli e alle pressioni degli usurpatori, confidando la causa della Chiesa a Dio, vendicatore di giustizia e diritto». A Vienna una nota del governo spiega di non aver mai riconosciuto il re d’Italia. A Parigi Napoleone III ricorda che nelle vicende italiane bisogna procedere “doucement”. Ma Torino è soddisfatta e tranquilla, e al teatro Regio va in scena la cantata augurale propiziatoria: «Gioisci, Italia/ come incendio sale/ al cielo il tuo gioir», dopo che i cannoni hanno sparato a salve dal monte dei Cappuccini. A Firenze, però, Cito Baldassarre, pizzicagnolo di via Calzaioli, ha esposto il busto del re, ma l’ha circondato coi salami appesi, in un presepe gastronomico irriverente: «Perché? Lui è il re – spiega –, noi sudditi siamo i salami».