la Repubblica, 13 marzo 2021
Il Pd e la trappola dell’unanimismo
La promessa di Enrico Letta è che nel discorso di domani all’assemblea online del Pd non cercherà l’unanimità dei consensi. Il discepolo di Nino Andreatta – uno che amava esprimersi con chiarezza – afferma di voler usare un linguaggio di «verità» in modo che si capisca l’intenzione di cambiare spartito. Se così fosse, se davvero il bersaglio del nuovo leader fosse «l’unanimismo», vorrebbe dire che il Pd, o quel che ne resta, ha cominciato ad affrontare la realtà. Essere unanimi, quando si è prigionieri del proprio declino, significa rinunciare a darsi una linea politica ben definita, privilegiando gli accordi di potere interni e l’intreccio degli interessi: protagoniste le famose «correnti» contro cui si è scagliato Zingaretti e tra le quali Letta si sforza di non restare subito impigliato.
Di recente un acuto intellettuale come Arturo Parisi, il più disilluso tra i vecchi fondatori dell’Ulivo, ha indicato proprio nell’unanimismo uno dei vizi che hanno corroso il Pd. È la ragione per cui nel corso degli anni abbiamo avuto – ha detto al Foglio e all’ HuffPost – «una sfilza infinita di voti unanimi intorno al segretario di turno, immancabilmente rovesciati di segno col cambio di segretario». Dietro questa ipocrita unanimità c’è un altro morbo (e non è solo Parisi a pensarla così): il “governismo”, ossia la volontà di restare aggrappati sempre e comunque al governo del paese, il che è altra cosa rispetto alla volontà di governare.
L’antidoto a tutto questo consiste nel «praticare la fatica del confronto, riscoprendo la virtù della democrazia»: una dura battaglia che si può combattere sia dal governo sia dall’opposizione.
È chiaro che l’esecutivo di salute pubblica guidato da Mario Draghi, di cui Letta sarà un leale sostenitore, modifica un po’ i termini dell’equazione suggerita da Parisi. Tutti nel centrosinistra sono consapevoli che il primo compito del neo segretario consiste nello stabilizzare il quadro generale intorno al presidente del Consiglio, evitando che il malessere del Pd regali Draghi alla destra. Ciò significa alimentare il dibattito con temi idonei a recuperare un’impronta di sinistra pragmatica. Se sarà capace di coglierla, il Pd ha l’occasione di diventare a tutti gli effetti il partito di Draghi, la sua principale sponda in Parlamento. È compatibile tale missione legata, diciamo così, all’emergenza con l’obiettivo di un partito che superi l’unanimità di comodo? In teoria sì, ma servirebbe un’idea precisa sulla linea politica. Al momento, Letta non ha alcun interesse a spezzare l’intesa con i 5S ma nemmeno a rafforzarla. Come dire che non è alle viste un cambio vistoso delle prospettive. E infatti, prima si elegge il nuovo segretario e poi si dà vita a un dibattito in giro per l’Italia che durerà a lungo e permetterà ai quadri e ai militanti di riflettere su loro stessi.
In altre parole, il “no” all’unanimismo sembra essere per ora lo strumento con cui Letta cercherà di rafforzarsi sul suo fragile piedistallo, il che presuppone di tenere a bada i capi corrente imponendo la legge dell’ultima spiaggia. E ovviamente consolidando il muro contro il “renzismo” e il suo artefice. Non sappiamo se e quanto tale modo di procedere avrà successo. Il riformismo per adesso si sviluppa all’ombra di Draghi e delle sue iniziative. Per il futuro si vedrà. Gli scettici pensano che il Pd abbia bisogno di una totale rifondazione. Ma servirebbe un Mitterrand. E forse anche il sistema elettorale francese.