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 2021  marzo 13 Sabato calendario

Intervista a Pupi Avati


«Negli occhi di mia moglie rivedo la mia vita, è il mio hard disk, dentro di lei ci sono tutti i miei file. Se non avessi ricostruito il matrimonio oggi sarei più povero, meno realizzato, più solo». Pupi Avati, regista di film come «Regalo di Natale», «Storie di ragazzi e ragazze» e «Il papà di Giovanna», tre David di Donatello e un Nastro d’Argento, racconta della sua ultima opera, «Lei mi parla ancora» (on demand su Sky cinema), tratta dal libro omonimo di Giuseppe Sgarbi (ed., La nave di Teseo). «A un giovane che si sposa suggerirei di prepararsi a un’impresa difficile», dice Avati. Che confessa: «Avrei voluto girare una scena a cui invece ho rinunciato, me l’ha raccontata Elisabetta Sgarbi, ma temevo di urtare alcune sensibilità. Ora sono pentito». Del resto ogni film, dice Avati, è una sfida, a partire dalla scelta degli attori: «Non amo i casting pigri. Per il ruolo di Nino ho scelto Renato Pozzetto, un attore comico, fuori dal giro da un po’. È stata una scelta controcorrente, sono le scelte giuste. Pozzetto ha dato molto a Nino». Avati, 82 anni, bolognese di origini, studi in Scienze politiche («ero sedotto dai mestieri belli»), passione per il jazz, dal 1959 al 1962 fa parte della Doctor Dixie Jazz band come clarinettista («ma un giorno nella mia orchestra arrivò Lucio Dalla e capii che non era la mia strada»), per lavorare diventa rappresentante dei surgelati Findus («gli anni peggiori della mia vita»), poi l’incontro folgorante con Fellini che lo porta sulla strada del cinema.
Domanda. Il suo cinema fugge sempre da ciò che è attuale, contingente, anche dalla politica. Perché?
Risposta. Perché voglio che duri, le cose che contano volano più in alto del contingente. Nelle nostre case, nelle nostre vite ogni giorno entrano tante storie, tante beghe, gente che tutte le sere parla di tutto nei programmi di informazione, sono sempre gli stessi, la solita compagnia di giro. Sono stupito e anche ammirato dal fatto che, con tutte le cose belle che si possono fare, c’è chi sta là a dire la sua su tutto, senza tentennamenti. Io rivendico invece il diritto anche a non avere un’opinione su una vicenda, o a cambiare idea.
D. Torniamo al suo cinema.
R. Le cose che ho fatto io si sono sempre affrancante dai rischi dell’attualità e non sarà un caso che molti dei miei film continuano ad andare in onda in televisione.
D. Film immortali.
R. Direi che hanno dimostrato di poter sopravvivere al tempo che passa. Il cinema di solito è come un farmaco, ha la data di scadenza, ha il suo valore per il momento nel quale viene fatto. Un libro, un brano musicale lascia sempre uno spazio all’immaginazione, un film invece 99 volte su 100 ha scarso potere evocativo, costruisce una sola realtà, anche quelli che consideriamo capolavori. Penso a molti film della Nouvelle vague, oggi sono imbarazzanti, mi chiedo come abbia fatto a rimanerne sedotto.
D. Lei però da ragazzo voleva fare l’ambasciatore.
R. Ero sedotto da mestieri belli, ho studiato Scienze politiche a Firenze.
D. Poi la passione per il jazz, suona come clarinettista nella Doctor Dixie Jazz band.
R. Ma un giorno nella mia orchestra arrivò Lucio Dalla e capii che non era la mia strada.
D. Ha pure fatto il rappresentante.
R. Di surgelati Findus, gli anni peggiori della mia vita. Sono stato salvato dal cinema, dall’incontro folgorante con 8 di Federico Fellini.
D. Il suo ultimo film racconta di un matrimonio eterno, di un’unione che va al di là della morte della sposa. Come è stato il suo matrimonio?
R. C’è stata una prima stagione, quella dell’invaghimento, dell’innamoramento. Mia moglie era una delle ragazze più belle di Bologna e volevo averla solo per me, che fosse una donna intelligente, simpatica, colta non lo sapevo, non mi interessava, il fatto che fosse bella bastava, era appagante, i maschi di allora erano così. Dopo i primi anni è successo che le cose non andavano, perché non bastava più la bellezza, ma occorreva anche altro. In quegli anni avevo cambiato mestiere per fare il cinema, ed ero sedotto dalla professione e dai relativi atteggiamenti, da quello che era incluso, diciamo, nel pacchetto del regista.
D. Diciamo che se ne è approfittato un po’...
R. Sì, ho approfittato un po’ squallidamente di quella situazione, e questo ha fatto sì che il nostro matrimonio si fermasse lì. Intanto avevamo due figli, il fine settimana li andavo a trovare, portavo loro ogni volta dei regali, quasi non li scartavano. Mi sono reso conto che li stavo privando della figura paterna, e l’ho avvertito come una grande scorrettezza nei loro confronti. Dopo quasi un anno abbiamo fatto una riflessione io e lei, e ci abbiamo riprovato. Fortunatamente è andata bene.
D. Qual è stato il segreto?
R. Abbiamo ricominciato con un approccio totalmente diverso, eravamo preparati al fatto che sarebbe stato difficile stare assieme. Eravamo però consapevoli che era importante riuscirci non solo per i bambini ma anche per noi. E dopo tanti anni mi rendo conto che è stata una scelta appagante, io oggi sarei più solo, più triste, meno ricco senza di lei. Quando guardo i suoi occhi vedo scorrere tutta la mia vita, le mie stagioni, lei ha vissuto con me il meglio e il peggio. Lei è il mio hard disk, dentro ci sono tutti i miei file. Così è per lei quando guarda me. E così ci si innamora ogni giorno dell’altro per dei valori che non sono quelli di 55 anni fa, è un amore molto più profondo.
D. Che coppia siete?
R. Siamo molto diversi, complementari, lei è molto bella con un carattere forte, molto razionale, mentre io vivo di sogni, sono rimasto un ragazzotto della provincia italiana.
D. Che consiglio darebbe a un giovane che sta per sposarsi?
R. Di prepararsi a un’impresa difficile, ma deve sapere che ne vale la pena. Un matrimonio che dura è un risultato non trascurabile nel lungo viaggio che è una vita, può sfociare nella felicità. Quando si ha la fortuna di arrivare a una certa età, nel momento in cui si fanno i conti con se stessi, ecco allora ci si rende conto di quali sono state le scelte giuste, quali quelle sbagliate. La condizione di pienezza esistenziale che sto vivendo è una sensazione che non si può descrivere se non la si vive: lei è la mia metà, l’altra parte di me stesso. Ed è un premio al sopportarsi reciproco negli anni, alle liti, alle giornate in cui non si comunica. Tutto alle spalle, resta il buono e il bello di quello che abbiamo costruito.
D. La storia del film è quella di Nino Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio Sgarbi, e della amata moglie Rina, morta dopo 65 anni di matrimonio. Quanto c’è di Pupi Avati in Nino?
R. Molto, nella storia di Nino rivivo il mio amore. In uno dei dialoghi c’è una battuta, si dice che a una certa età si smette di abbracciarsi. È di mia moglie. Mi assale il panico se penso che un giorno potrei non rivederla. Quando hai paura di perdere la persona che ami vuol dire che l’ami veramente.
D. Lei declina il «per sempre», che una volta era il sogno romantico di tanti giovani. Oggi molti matrimoni nascono nella consapevolezza che il per sempre non sarà realtà.
R. Io dico cose scandalose per i nostri tempi, ne sono consapevole, ma ho trovato un’infinità di persone a cui il film è piaciuto, evidentemente c’è chi ancora ci crede.
D. Il film non è andato nelle sale cinematografiche, chiuse per l’epidemia. Le è mancato?
R. Mi è mancato molto, con questo film in particolare, perché so cosa significa accompagnare un film in sala con gli spettatori, rivederlo con il pubblico amplifica le emozioni, dà ancora più profondità ai dialoghi e ai silenzi. Sarebbe stata un’esperienza profonda. Ma lo sarà, nella sale ci ritorneremo.
D. L’epidemia ha costretto tutti a rivedere la socialità, ad essere più soli. Per lei la solitudine cos’è?
R. È un’opportunità, posso pensare, creare. Se non si è capaci di stare da soli vuol dire che non si è creato il proprio mondo. Poi quando si ha una certa età si pensa ai libri che non hai letto, ai viaggi che non hai fatto, alle parole che non hai detto o hai detto male...
D. Perché ha scelto un attore come Pozzetto per la parte di Nino?
R. Non ho mai fatto casting pigri, genuflessi verso l’ultimo film di successo, l’ultimo attore sulla cresta. Non ci vuole molta fantasia a coinvolgere un Elio Germano o un Pierfrancesco Favino o un Checco Zalone. Puntare per il ruolo di Nino su Renato Pozzetto, un attore comico, fuori dal giro da un po’, era invece un’impresa, una sfida. Mi piace andare controcorrente. Pozzetto ha dato tanto a Nino. Del resto ho fatto un film che parla della vecchiaia e della morte, di un matrimonio che dura una vita, di un amore eterno. Credo che sia stata una delle mie sfide più grandi.
D. Ora che il film è uscito, c’è qualcosa che avrebbe voluto fare diversamente?
R. Ci ho pensato, c’è una scena che non ho messo e che era quella che aveva motivato il film. Un momento che mi ha raccontato Elisabetta: ogni fine settimana andava a trovare a Ferrara il padre che era rimasto vedovo. Quando non poteva raggiungerlo, il padre la chiamava davanti alla tomba della moglie e insieme recitavano il Padre nostro.
D. Perché non l’ha girata?
R. Temevo di esagerare, ho fatto un film in cui parlo della sacralità del matrimonio, Mi sembrava già abbastanza. Ora sono pentito di non averla inserita, visto il calore e la partecipazione con cui il film è stato accolto avrei dovuto osare di più. Prossimo film oserò di più.
D. Da anni vorrebbe realizzare un film sulla vita di Dante Alighieri.
R. Spero sia il mio prossimo film. Un personaggio misterioso, con qualità profetiche da indagare.