Tuttolibri, 13 marzo 2021
Le lettere del soldato Gadda
Le opere di Gadda presso Adelphi si avviano a toccare la ventina di volumi, tutti in edizioni impeccabili per scrupolo filologico, accuratezza di curatele e ricchezza d’inquadramento critico. Ora si aggiunge un volume costruito con i materiali degli archivi famigliari, lettere e un’appendice di immagini 1915-1919, suggestive nella loro desolazione, sotto il titolo La guerra di Gadda, per le cure di Giulia Fanfani, Arnaldo Liberati e Alessia Vezzoni, che forniscono al lettore ogni possibile informazione.
Sappiamo che per Gadda la guerra, anelata con fervore patriottico come prova massima di rigenerazione per sé e per la nazione, costituì un’esperienza decisiva, inesauribile serbatoio di temi e immagini. Arriverà a scrivere: «Tutto, tutto ‘sto cinema, nel mio cuore disumano si trasfigurò in desiderio, diventò viva e profonda poesia, inguaribile amore». Nei taccuini che andranno a comporre il Giornale di guerra e di prigionia e nelle lettere si prende a dispiegarsi, sotto il vento della nevrosi, una scrittura che unisce alla precisione del referto una lingua di sostanziosa complessità, in cui convergono scienze e lettere.
Il vulnerabile, timido, smanioso sottotenente Gadda, «il Lotti», come lo chiamano affettuosamente in famiglia, cerca di adempiere al meglio «il nostro più glorioso dovere». Vuole «trovare nell’autodisciplina una dignità individuale e nazionale», ma si sfianca nelle retrovie, tra corsi di addestramento, trasferimenti, corvées pesantissime (sull’Adamello deve rifornire le artiglierie a tremila metri, con decine di ore di marcia a temperature polari). Mai abbastanza vicino alla linea del fuoco, impossibilitato a dar prova del proprio valore, afflitto dalla «stupidità lunare e indifferenza altrui», in attesa di una nomina a ufficiale che non arriva. Si sente un imboscato, lamenta di non avere avuto nemmeno «l’onore di una ferita».
Lungi dall’essere governata dalla razionalità, la guerra segna il trionfo di una burocrazia assurda, «dell’apatia inguaribile» dei comandi, dell’aborrito caos, di cui è una rappresentazione plastica la confusione che regna nottetempo in una baracca in cui si accalcano decine di ufficiali e di attendenti: «In questo spazio ristretto, bagnato, oscuro, afoso, ingombro, intricato, tutti i dialetti, tutti gli accenti d’Italia, si mescolano nelle più divertenti imprecazioni contro il tempo, la montagna, la neve, il gelo e i colleghi». Si sente «morire d’itterizia» di fronte al disordine di certi ripari ipogei, infestati dalle mosche «come un’osteria di Cinisello». Quando al fronte arriverà davvero, dopo aver visto con i propri occhi l’orrore di un campo di battaglia e le feroci devastazioni degli austriaci nei piccoli borghi alpini, che gli ricordano quelle dei Lanzi manzoniani, è l’ottobre 1917. Sono i giorni di Caporetto, la cattura e la prigionia vissute come colpa imperdonabile, un anno di fame, freddo e disperazione in un Lager tedesco. Sa che tornerà in patria «a testa china, confuso tra i mille: nel ritorno non ci sarà gioia, ma vergogna; e adesso devo mendicare pane».
Quando rientra, la mazzata finale: la notizia, che sino ad allora gli era stata nascosta, della morte dell’amatissimo fratello Enrico, spericolato aviatore: «Nella sua scomparsa è la negazione, per me, della possibilità di vivere».
Ma non c’è solo guerra, nelle lettere. Quello che vi si configura è una sorta di romanzo famigliare in cui si muovono quattro personaggi, sullo sfondo della buona società milanese (che ritroveremo nell’Adalgisa), intenta a sferruzzare calze e maglioni per gli eroici combattenti: oltre al cerimonioso «Lotti», la madre Adele, austera insegnante, vibrante di retorica patriottica, mandata prima a Modica, poi a Lagonegro; l’estroverso, spavaldo Enrico, il cocco di mamma, l’allegro moschettiere che arriva a comperarsi una motocicletta mentre la famiglia tira la cinghia, autore di lettere perfino più brillanti di quelle del fratello; la sorella Clara che si sta laureando e sembra avviata a un destino di solitudine. Giocano una partita sottile, in cui trionfa il non detto, intessuta di reciproche premure sin troppo esibite, contabilità minuziose di spese, prestiti e risparmi, gelosie e recriminazioni dissimulate con qualche fatica. Si addensano qui le tensioni, soprattutto tra madre e figlio, che troveranno la loro trasfigurazione nelle pagine più drammatiche della Cognizione del dolore. Nelle lettere la villa brianzola di Longone, deprecata da Gadda come esempio degli sperperi famigliari, è ancora «la nostra cara casa». Il saldo finale è quello accorato che si legge dei diari: «Ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l’umiliazione, la malattia, la debolezza, l’impotenza del corpo e dell’anima, la paura, lo scherno, per finire a Caporetto…».
Nulla resterà a testimoniare che è stato un bravo soldato. Ma in mezzo a tanta sofferenza il «vecchio Gaddus e Duca di Sant’Aquila» (come si autodefinirà) costruisce quella che diventerà la sua inconfondibile cifra stilistica. Le sconfitte umane diventeranno la premessa della vittoria dello scrittore.