Tuttolibri, 13 marzo 2021
1QQAN14 Michele Ainis ha scritto un romanzo. Intervista
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Michele Ainis è un costituzionalista sui generis. Siciliano, si laurea a Messina con Temistocle Martines, giurista poliedrico e di forte impegno civile, oltre che autore del manuale su cui ha studiato mezza Italia. Prima cattedra in loco, poi a Roma e Teramo. Oggi un incarico di vertice nell’autorità Antitrust. Quando cominciò a collaborare con La Stampa, alla fine degli Anni 90, introdusse nel dibattito politico-istituzionale tra giuristi, storici e politologi ospitato dai grandi giornali uno stile moderno: frasi brevi e dirette, concetti lineari, linguaggio non accademico, uso della metafora pop. Inevitabile che dai testi di dottrina passasse al pamphlet e, infine, al racconto. Disordini ne è la terza prova.
Come e quando nasce?
«L’idea ha cominciato a ronzarmi in testa un paio d’anni fa, più o meno. Era uscito da poco un altro mio romanzo, Risa. Anche in quel caso, una storia visionaria, giocata sul rapporto fra la città dei vivi e la città dei morti, cioè delle cose trascorse, del passato».
Dunque c’è un filo che li lega?
«La letteratura fantastica – Borges soprattutto, e poi Kafka, Calvino, Saramago – ha sempre occupato i miei interessi, fin da quand’ero ragazzo. Credo che abbia uno statuto superiore rispetto ai racconti più realisti, perché viaggia per metafore, per allusioni, per citazioni oblique del "nostro inferno quotidiano", come lo definì Calvino nelle Città invisibili».
L’allusione di "Disordini" è immersa nella contemporaneità.
«Dopo Risa ho cominciato a pensare a una nuova metafora, a una nuova trama. Ed è saltato fuori questo libro, ma non so dire esattamente quando sia stato concepito, in che momento. So solo che scrivere è un mestiere solitario, ed è una gran fatica: si partorisce sempre con dolore».
Se è stato concepito prima, è stato partorito durante la pandemia. Che rapporto ha la storia con il vissuto collettivo dell’ultimo anno?
«Quando ho progettato Disordini l’epidemia non c’era, non ancora. O forse sì, c’era e c’è una malattia dell’anima, della nostra anima sociale. Un morbo invisibile, come il virus che ci ha aggredito l’anno scorso. La metamorfosi che colpisce il protagonista del romanzo, e via via tutti gli altri, ne costituisce una rappresentazione letteraria».
Dunque il professor Ainis, o Oscar se preferisce, ha visto prima e più profondamente di noi?
«Ma non ho poteri divinatori, non avevo previsto il Covid-19, né le sue conseguenze. È vero però che le pagine finali di questo romanzo sono state scritte durante i mesi del lockdown, e questo le avrà pur influenzate. Sicché può esserci un filo indiretto con l’esperienza che stiamo attraversando, e magari così funziona meglio, è più efficace».
Non la spaventa cimentarsi con la letteratura della pandemia?
«Ricordo d’aver letto un’intervista a Elisabetta Sgarbi, mentre stavo chiudendo la stesura del romanzo. Diceva d’essere in cerca di una storia che restituisse l’atmosfera di questo tempo malato, non però una cronaca, perché non se ne può più, il Covid ha invaso ogni discorso, ogni giornale, ogni trasmissione tv. Ecco, ho pensato, forse il mio romanzo ha questo retrogusto. Ma chissà poi se è vero».
Che tipo di professore, di uomo è il protagonista del libro?
«Lui è il centro degli eventi che si succedono nel libro, ed è anche la lente con cui vengono osservati. Un uomo con una vita minima, senza grandi affetti né trasporti. Ma quando subisce questo spaventoso cambiamento, cerca di restare freddo, d’opporre un comportamento razionale all’irrazionalità dell’esistenza. Dopo di che scopre inclinazioni e sentimenti di cui, nella sua prima vita, non era capace».
C’è un fondo autobiografico in questo personaggio?
«In qualche misura è inevitabile: "Madame Bovary c’est moi", diceva Flaubert. Ma in generale i libri appartengono a chi li legge, non a chi li scrive. Le intenzioni dell’autore non contano nulla, conta solo il testo. Una settimana prima che Disordini andasse in libreria, ho scoperto che era già in classifica Ibs, ma per il settore "Fantascienza". Eppure non ho scritto Guerre stellari. O almeno non mi pare».
Come ha maneggiato la scrittura di finzione, in un ambito così delicato come la malattia? Ha avuto imbarazzo?
«L’epidemia che corre in tutto il mondo è soltanto una possibile chiave di lettura del mio testo, però non l’unica».
Qual è quella che preferisce?
«Il rapporto fra l’adulto e il bambino. Perché la trasformazione del corpo e della mente colpisce ogni persona, se la sua vita dura abbastanza a lungo. Io non ho lo stesso viso di quando avevo sette anni, né gli stessi pensieri. Nemmeno lei, suppongo».
Qual è il rapporto con le parole in un romanzo, per un professore abituato al saggio, all’analisi?
«Ormai sono recidivo. E alla narrativa pensavo di dedicarmi interamente, ai tempi del liceo. Ma ho scritto molti più saggi, è vero. E oltre un migliaio di editoriali, in larga misura pubblicati proprio dalla Stampa, con cui ho collaborato per dodici anni. Un periodo di cui ho ricordi intensi, e molta nostalgia».
La scrittura cambia come la faccia nel suo libro?
«Io vivo di parole scritte, anche se in questo periodo il mio impegno si concentra sul lavoro in Antitrust. Scrivo continuamente, dev’essere una forma di nevrosi. E ovviamente le parole s’adattano al veicolo sul quale viaggiano di volta in volta, benché poi ciascuno di noi abbia il proprio timbro, il proprio stile. Un articolo di diritto su una rivista scientifica ha un passo diverso da un pamphlet politico, e quest’ultimo è altra cosa da un romanzo. Potremmo concludere che la forma narrativa è la più libera, quella in cui ci si esprime senza troppi vincoli. Ma è vero il contrario».
In che senso lo è?
«Specie se stai imbastendo una storia irreale o surreale, dato che in questo caso devi far accettare al tuo lettore un universo assurdo, convincerlo della sua verità. E infatti Kafka usava a piene mani parole come "quindi", "siccome", "perché", "dunque", "allora": elementi di concatenazione razionale per narrare vicende irrazionali».
I luoghi: scelti a caso, oppure con quale logica?
«Roma è la città in cui vivo da più di trent’anni. A Roseto degli Abruzzi – l’altro posto in cui si consuma questa storia – ritorno ogni estate, perché la famiglia di mia moglie ha una casa lì, e perché all’Abruzzo sono affezionato, pur essendo siciliano. Dunque sono luoghi che conosco bene, e d’altronde, in caso contrario, sarebbe stato impossibile parlarne».
I personaggi femminili del libro: che ruolo hanno?
«La vera protagonista femminile è Francesca, la fidanzata di prima, l’amante di dopo. È lei il ponte che congiunge Oscar al suo passato, è lei a restituirgli le radici proprio nel momento in cui una trasformazione fisica lo aveva sradicato dal suo mondo. Poi c’è Giulia, che intrattiene una serie di relazioni parallele: con Oscar, ma al contempo con Fabrizio e con Vincenzo, due personaggi stralunati che alloggiano nella stessa pensione di Oscar. Infine Teresa, l’anziana proprietaria della pensione, colpita anche lei dalla metamorfosi».
Avrebbero potuto essere maggiormente connotate?
«Non so, diciamo che è piuttosto difficile connotare qualcuno cui un morbo o un Dio abbiano cambiato i connotati».
Il finale: è venuto proprio così o è il frutto di un’elaborazione successiva?
«No, era programmato, benché non nei suoi termini esatti. Serviva a imprimere un moto rotatorio alla vicenda, come accadeva già negli altri miei due romanzi, sia pure con una tecnica diversa. L’eterno ritorno dell’uguale, se vogliamo scomodare Nietzsche».