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 2021  marzo 13 Sabato calendario

Il caso della nuova traduzione francese della Divina Commedia

Lo adorava Balzac, anche Baudelaire e tanti altri. Ma a 700 anni dalla sua morte, in Francia Dante fa parlare ancora di sé. Negli ultimi anni e decenni si sono moltiplicate le traduzioni della Divina Commedia, che alimentano un dibattito appassionato: come rendere quella poesia? Privilegiare la comprensione sulla riproduzione della forma? Occhieggiare al bello, al vero o alla più plausibile autenticità? Proprio in questi giorni esce per i tascabili delle edizioni Babel, la traduzione di Danièle Robert (pubblicata per la prima volta a partire dal 2016). Che ha riscoperto la terzina dantesca.
«Ho voluto rispettare al massimo le scelte di Dante – ha spiegato la Robert all’agenzia France Presse -. Lui inventò la terza rima, che intreccia i versi, rompendo la monotonia e facendo riferimento alla Trinità (ndr: la seconda rima di una terzina corrisponde alla prima e terza rima della terzina successiva, lo schema ABA-BCB-CDC eccetera). Se avessi rinunciato a questa struttura, che dà un fondamento al senso dell’opera, non avrei restituito la voce del poeta. Nel passato, però, altri traduttori vi hanno rinunciato: la consideravano una "ginnastica" troppo complessa, che ci faceva allontanare irrimediabilmente dal testo».
Fa riferimento alla poetessa Jacqueline Risset (morta a Roma nel 2014), che denunciava nella terza rima, il concatenare di una terzina all’altra, «un’impressione di meccanicità ridondante, che tradisce e ignora un altro aspetto del testo di Dante, forse ancora più essenziale, l’invenzione sovrana ». Sì, lei privilegiava la comprensione.
Quanto alla quantità dei versi, quella della Robert è diseguale, ma si avvicina al decasillabo. Nel 1998 un’altra versione della Divina Commedia, del traduttore franco-italiano di origini serbe Kolja Micevic, aveva ripreso la terzina dantesca (che lui trovava «logica, matematica, surrealista»). «Il tentativo di riprodurre la terza rima è meritorio – sottolinea Francesca Manzari, specialista di poesia medievale e direttrice del master di traduzione letteraria all’università di Aix-Marsiglia – anche se non è mai sistematico. Per il traduttore sarebbe l’opera di una vita, un’impresa ciclopica». La stessa Robert ammette che «in alcuni passaggi ho avuto dei problemi».
La Manzari ha confrontato la traduzione della Risset e un’altra emblematica, quella che André Pézard pubblicò per la Pléiade, la collezione di Gallimard, nel 1965, dopo 12 anni di lavoro forsennato. Lui non riprodusse la terza rima, ma inserì diversi arcaismi, che considerava fedeli alla versione originale. «In Pézard emerge una ricerca spasmodica del prezioso e della parola desueta, che, in modo straordinario, diventano moderni – sottolinea la studiosa -. Quello che Ezra Pound fece con le traduzioni in inglese del Cavalcanti, Pézard lo compie con la sua traduzione della Divina Commedia: viene fuori un effetto modernista». Quello della Risset, invece, «è un progetto di traduzione estremamente democratico. Il suo obiettivo era che un giovane lettore contemporaneo leggesse la Divina Commedia senza andare a consultare il dizionario. E infatti la sua traduzione è ancora molto diffusa in ambito scolastico. Ma, quando Dante compose il poema, creò un italiano che non esisteva ancora. Rendere Dante accessibile a tutti, vuol dire stravolgere il suo proposito».
Se si va molto indietro nel tempo, a lungo le traduzioni di riferimento in francese resero il poema addirittura in prosa. È il caso della versione del prete Félicité de Lamennais (la sua prima edizione risale al 1855) o prima di lui quella dello scrittore di pamphlet Rivarol (1785). Secondo la Manzari «trasformare in prosa un capolavoro della poesia come la Divina Commedia corrisponde a lavorare evitando di rispondere alle domande che il testo ci pone ancora oggi, nella sua attualità». Quell’approccio sembra ormai definitivamente superato, anche se René de Ceccatty, nel 2017 (edizioni Points), ha fornito una traduzione che è una successione di ottosillabi, ma senza rime, ancora con l’obiettivo (vedi l’approccio della Risset) di semplificare il testo. Alla radio France Culture, nel 2018, de Ceccatty spiegava che «il messaggio profondo di Dante è universale e, quindi, bisogna trovare una lingua che permetta al lettore attuale di accedervi. Occorre prima di tutto preservare l’insolenza del poeta, che era un fuggitivo, un ribelle, un esule». Ma, per la cronaca, la traduzione di de Ceccatty ha scatenato vivaci polemiche tra gli italianisti di Francia.