Inimitabile è anche diventare Cochi da Aurelio. Come si fa?
«Facilissimo. Basta nascere mentre sul Corriere dei piccoli ci sono le storie di Cochi, un bambino di pochi giorni a cui secondo mia madre somigliavo. Il nome me lo sono preso e tenuto, anzi le sole volte che la mamma mi chiamava Aurelio voleva dire che stava per darmele. E me le meritavo».
Monellacci siete stati anche con Renato, amico d’infanzia prima ancora che di cabaret.
«Erano amiche le nostre famiglie, era destino. E già da studenti frequentavamo le osterie milanesi, strimpellavamo la chitarra, poi a me diede lezioni di accordi e tecnica Giorgio Gaber, e poi anche Bruno De Filippi. Sono un dilettante, ma raffinato. Li avevamo conosciuti all’Oca d’oro, osteria di zona Porta Romana frequentata da intellettuali e pittori: Piero Manzoni, Luciano Bianciardi, Dino Buzzati, Lucio Fontana».
Stop, Fontana. Ma è vero che...
«Vero, vero. Non guidava e la sera lo portavo a casa io. Ogni tanto mi diceva, in dialetto, “vegn su che te regali un quader”. Non accettai mai, il mio era un gesto spontaneo.
Adesso avrei in casa un tesoro, ma per affetto non lo venderei mai».
Iniziaste proprio all’Oca d’oro a fare cabaret.
«Anno 1964, con Tinin e Velia Mantegazza. E già con questo umorismo, che veniva facile nella Milano di allora, bastava tendere le orecchie in tram e per strada o al bar pasticceria Gattullo, la nostra tana».
E poi il Derby. Mitico davvero?
«Eccome. Un gruppo irripetibile.
Noi, Felice Andreasi, Bruno Lauzi, Lino Toffolo, ovviamente Jannacci: il Gruppo motore. Il Derby aveva una capienza di 300 persone.
Spesso ne restavano fuori 200, per la richiesta che c’era. Veniva gente da tutta Italia».
Venne anche Marcello Marchesi e voi finiste in tv.
«Debuttammo nel 1968 con Quelli della domenica. All’inizio non fu facile: la gente o ci capiva, di solito giovani come noi e intellettuali, o ci avrebbe fatto arrestare. Poi pian piano entrammo nel linguaggio e nei cuori di tutti».
Censure mai, in quella Rai?
«Come no. Lo sketch del 7+ parlava delle baronie universitarie, dei professori corrotti. Ma il Ministero ci arrivò alla tredicesima puntata».
La vostra era anche una comicità di canzoni.
«Eccome, La gallina, Canzone intelligente, A me mi piace il mare.
C’era sempre dietro Jannacci, amico fraterno oltre che genio.
Facevamo canzoni con messaggi nascosti: E la vita la vita parla di quanto è facile far carriera se hai chi ti protegge. Silvano di omosessualità».
Ecco, “Silvano”. Una buona volta: cosa vuol dire “e non valevole ciccioli”?
«Non lo so, e non so neanche chi di noi lo inventò. Io rivendico solo “chicobuarquedehollandami”, una dedica al nostro amico Chico che io e Renato portavamo in tour ma nessuno se lo filava perché la gente voleva noi».
Successo travolgente fino allo scioglimento nel 1975.
«Ognuno voleva seguire una strada diversa, ma nessuna divergenza, siamo sempre sempre sempre stati amici, fratelli. Certo, coi film ha avuto più successo di me. Pensi che una volta una commessa strabuzzò gli occhi guardandomi, poi confessò “ma lei non era morto?”. Ma io amo il teatro, felicissimo così».
Poi però vi siete riuniti.
«Nel 2000 per la fiction Nebbia in Val Padana. Ci mettemmo qualche data a teatro così per giocare: teatri esauriti dappertutto. E tantissimi ragazzini a ridere con noi».
E adesso?
«E adesso vogliamo ancora fare cose quando si potrà. Speriamo nella riapertura del teatro Lirico».
Come festeggia oggi?
«Non festeggio, odio le celebrazioni. La vera festa sarà domenica quando mi vaccineranno».