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 2021  marzo 11 Giovedì calendario

Tornare ad essere Federer in un mondo cambiato

In attesa che ritorni la normalità, è tornato Roger Federer. E ci ha dimostrato che la strada è praticabile, ma arrivare al traguardo costerà fatica: qualche sforzo più di prima. Ha rivinto, ma dopo due ore e mezzo di battaglia, cedendo un set a un avversario al quale non ne aveva mai lasciati, arrampicandosi sulla cima del tie-break nel primo (10 a 8), ma ritrovando nel terzo e finale quello che tutti stiamo cercando: l’istinto per fare la cosa giusta nel momento giusto, per non arrenderci nel momento sbagliato, sul punto di equilibrio tra opposti destini. Lì, su quel confine, su un campo da tennis in Qatar o in ospedale in Brianza, vanno dimostrate sapienza e determinazione. Sul 3 a 3 nel set decisivo, con una palla break per l’avversario, Federer ha fatto una cosa esemplare: il dodicesimo ace della sua partita, un servizio pulito e imprendibile spedito all’incrocio delle possibilità prima ancora che delle righe. Ha fatto anche altre cose in quei 150 minuti: ha sorriso dei propri errori, ha ridisegnato il percorso della propria vocazione, steccando un numero inedito di volte, lui che ha nel braccio l’armonia prestabilita, ma presentandosi alla conclusione con la sicurezza di chi sa leggere le note un attimo prima che lo spartito svolti.
Può sembrare eccessivo attribuire al ritorno in campo di Federer dopo 1 anno, 1 mese e 11 giorni un significato che va al di là dell’evento sportivo. Cedere alla tentazione è inevitabile. La sua ultima apparizione fu il 30 gennaio del 2020, quando la città di cinese di Wuhan divenne capitale mondiale della paura. Da allora lo abbiamo visto giocare soltanto con Carola e Vittoria, due ragazze che palleggiavano sui tetti di Finale Ligure. Ha cucinato qualche pasta, guidato qualche berlina, si è operato al ginocchio. Si sussurrava pensasse al ritiro. Mettere una parentesi nel discorso alla sua età (saranno 40 in agosto) è una predisposizione al silenzio. Il timore che non tornasse più è diventato metafora della nostra preoccupazione: non riavere la vita come la conoscevamo, con la stessa geometrica spensieratezza a unirne i punti, la naturalezza dei gesti, il baleno intermittente della grazia, in altre parole, con Roger Federer. Stiamo tutti lottando contro il tempo, tutti stiamo perdendo una stagione: i più giovani un capitolo di quelli fondativi perché ogni cosa è nuova, i più vecchi uno di quelli cruciali perché nulla potrebbe concedere rivincite. Nella proiezione mitologica che l’eroe sportivo accende scorrono immagini impallidite: Valentino corre su un circuito parallelo, Ronaldo e Ibra si perpetuano per volontà senza più rappresentazione. Tolto Federer, sarebbero state mani di poker da giocare senza più assi, si sarebbero presi il piatto perfino i falsi nove. È stato un sollievo sentirlo annunciare alla radio svizzera: «Vorrei giocare fino alla fine della mia vita. Sentire ancora il gusto di qualche vittoria». Un sollievo ancora maggiore è stato rivederlo all’ingresso al tunnel, una luce che si manifesta al contrario. La galleria psichedelica di Doha è parsa un limbo dal quale stava uscendo, dopo mesi in cui probabilmente era andato a letto presto e, come ha detto, ha guardato incontri alla tv, immaginando il dopo. Quando il dopo diventa adesso ti riconsegna tra le dita il filo spezzato e non è facile agguantare l’altro capo. Si è ripresentato vestito da allegro chirurgo, sceso al circolo indossando una tenuta con varianti del verde sala operatoria. Ha alzato gli occhi su quel pubblico a macchia di leopardo. Ha abbassato la mascherina e annusato il vento con il piacere di poterlo fare. L’abitudine perduta l’ha mandato a cercare l’asciugamano nel posto sbagliato. Come un convalescente, ha proceduto per tentativi. Il suo ultimo giorno da numero 1 fu il 18 giugno del 2018. Difficile torni, ma intanto è tornato lui. Ha scelto un torneo amico: l’aveva vinto tre volte, perdendo soltanto 3 partite su 29. Se n’era andato nove anni fa da imbattuto, dando forfait in semifinale. Ha ricominciato da lì, rinnegando la rinuncia. Ha ritrovato l’inglese Daniel Evans, talismano che aveva già accompagnato un suo precedente rientro. Ha ricostruito il proprio gioco praticandolo. La desuetudine gli ha fatto sbagliare molti colpi al volo, anticipare scelte che avrebbero avuto bisogno di preparazione. Quando la partita si è allungata era pensabile che non avesse le energie per inseguirla. Invece, contro ogni logica, il tempo si è messo dalla sua parte. Lo ha rispettato. Più il gioco saliva di intensità e più lui ridiventava se stesso. Fino a quella palla break respinta come fosse un’offesa. Da lì in poi è stata soltanto gioia di esserci, consonanza con la storia e consapevolezza della sua trama. Il risultato, più che segnato: un segno. Vale per tutti, anche se nessuno è Federer.