la Repubblica, 11 marzo 2021
I porti franchi del dopo Brexit
Il Regno Unito dopo la Brexit si trasformerà in una Singapore sul Tamigi? Oggi abbiamo la risposta definitiva. Il 3 marzo il governo di Boris Johnson ha rivelato i nomi di otto zone economiche speciali (dette anche porti franchi), dove le merci possono transitare senza troppi controlli, dove si può costruire, produrre e riesportare con un regime fiscale di favore e senza oneri doganali. Nasceranno così delle aree offshore in competizione diretta con Dubai e Singapore che potrebbero diventare dei buchi neri del capitalismo del 21esimo secolo. Tra i luoghi prescelti vi sono alcune località dove la criminalità organizzata inglese è fortemente radicata.
La creazione di porti franchi è una politica chiave della Brexit. L’attuale cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, pubblicò un saggio nel 2016 proponendoli come la soluzione per invertire il declino economico del Paese. Al momento del suo insediamento, il 24 luglio 2019, Johnson li citò quale punto essenziale del suo programma. Il 3 marzo di quest’anno Sunak ha rivelato i nomi dei luoghi prescelti, che includono i porti di Felixstove, Liverpool, London Gateway e l’aeroporto di East Midland a Nottingham. Presto ne nasceranno altri in Scozia e nel Galles. Già si sono levate voci favorevoli ad estendere questo modello a tutti i porti inglesi.
I sindacati hanno espresso preoccuazione per la sicurezza e i diritti dei lavoratori, mentre la Camera di commercio è sorpresa per il numero elevato di aree offshore. Diverse organizzazioni internazionali hanno sottolineato anche altri rischi. La Financial Action Task Force ha definito le zone economiche speciali come «un pericolo per il riciclaggio di denaro sporco e il finanziamento del terrorismo». Esse vengono spesso usate per aggirare le sanzioni internazionali ed evadere le tasse. Il Parlamento Europeo ne ha proposto la chiusura. Il congresso americano nel 2018 si è detto preoccupato per i traffici illeciti che ne seguono. La World Custom Organization ha scoperto che i crimini più comuni commessi in quelle giurisdizioni sono frodi fiscali, importazione illegale di sigarette, reati contro la proprietà intellettuale e il traffico di droga. Su 626 confische avvenute nel periodo 2011-2018 nei porti franchi, la maggior parte riguardava droga e beni contraffatti. Uno studio dell’Ocse pubblicato nel 2018 stima che, per ogni nuovo porto franco che entra in funzione, i beni contraffatti esportati aumentino del 5.9 percento. Nonostante questi rischi, le free zone sono oggi quasi 5.400 nel mondo, mille delle quali aperte negli ultimi cinque anni. Un universo parallelo, dove spesso sono sospesi i diritti sindacali e dove, in barba ai principi del libero mercato, vigono regole speciali.
Un’area prescelta dal governo inglese è il porto di Liverpool, che si collega, attraverso un sistema di canali, a Manchester, per un’area di quasi 50 chilometri quadrati. Negli anni 60, quando lo storico boss locale Tommy Comerford dettava legge, qui cominciò a entrare la droga che riforniva il nord dell’Inghilterra. Nei primi anni di questo secolo scoppiò una guerra, che ha fatto circa venti omicidi l’anno, per il controllo del mercato degli stupefacenti. Gli scontri avvenivano nel quartiere del porto, a Vauxhall. Nei magazzini venivano nascoste le armi. Quando visitai le strade di Vauxhall nei primi anni Dieci – e soprattutto Scotland Street – mi sembrava di entrare in un mondo a parte: nei pub un forestiero veniva guardato con molto sospetto e gli servivano solo un drink. Poi era meglio togliere il disturbo.
Un’indagine del 2020, che ha portato a più di 800 arresti in diversi Paesi, ha concluso che le gang di Liverpool “dominano il mercato della droga e delle armi in Inghilterra”. I legami con le mafie irlandesi sono fortissimi: a settembre un tribunale ha condannato un killer di Liverpool per aver commesso un omicidio a Dublino. Nascosti nell’area del porto vi sono decine di piccole officine dove si convertono vecchie armi in moderni e letali strumenti di morte. Questi laboratori nacquero quando Liverpool era un porto franco (nel 2012 il governo lo chiuse). A quei tempi fu arrestato James Dunne, un ingegnere che lavorava al porto e fece l’errore di offrire un Uzi e due Glock a un agente sotto copertura. Il responsabile della lotta al traffico d’armi della National Crime Agency, Matthew Perfect, ha dichiarato che le gang «sfruttano la posizione geografica di Liverpool, con il suo accesso al mare, per controllare il mercato». Anna Sergi, criminologa all’Università di Essex e co-autrice di uno studio sulla città, intravede la possibilità concreta di una «integrazione fra trafficanti di droga e gang».
Anche due porti commerciali sul Tamigi, quello di Tilbury e di Gateway, hanno ottenuto lo status di zona speciale: il progetto potrebbe creare fino a 25mila nuovi posti di lavoro e rilanciare l’economia locale, dicono i promotori. Il porto è già di proprietà del Dubai DP World, guidato dal sultano Ahmed Bin Sulayem. Nel dicembre del 2020, 1.600 chili di cocaina sono stati trovati nascosti in un container sul molo di Gateway. Il cargo arrivava dalla Colombia attraverso Anversa, una rotta tipica per importare droga nell’Europa del Nord. D’ora in poi sarà anche più facile creare fatture fittizie per pagare la merce. La normativa inglese non prevede che sia svelato il beneficiario ultimo di una spedizione. Anton Moiseienko, co-autore di due dettagliati studi sul progetto di porti franchi di Johnson, ci ha dichiarato: «Stupisce che il governo inglese non abbia fatto un controllo preventivo sui rischi criminali che vi sono in certe parti del Paese, come nel caso di Liverpool». E conclude: «Nel progetto non sono chiare le responsabilità amministrative di controllo. È un assegno in bianco». Senza dubbio, rilanciare l’economia è un nobile obiettivo, ma deve andare di pari passo con il rafforzamento dei controlli sui traffici illeciti nelle aree ad alto rischio. In caso contrario, l’Inghilterra dopo la Brexit rischia di diventare la meta ideale per evasori, truffatori e trafficanti.