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 2021  marzo 11 Giovedì calendario

L’importanza dei bar per arte e politica

«Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo», cantava Gino Paoli trent’anni fa, in una canzone in cui i commensali, profeticamente, diminuivano; e mai come oggi quel mondo fatto di caffé, di incontri conviviali o di lavoro, fucina di idee fulminanti nate attorno a un bicchiere, fulcro della vita sociale non solo italiana, ci manca immensamente. Per gran parte del Novecento, è stato attorno ai tavoli di un bar o di un ristorante che si sono lanciate rivoluzioni sociali, artistiche, letterarie. Ma oggi, a causa della pandemia, quel mondo sembra sgretolarsi davanti ai nostri occhi. Ha chiuso i battenti il pub Lamb & Flag di Oxford, dove si ritrovavano J. R. R. Tolkien e C. S. Lewis, autori de Il signore degli anelli e delle Cronache di Narnia. E sentono i colpi della crisi tutti gli storici locali italiani, dal Caffé Greco dove si ritrovavano, tra gli altri, Ennio Flaiano, Renato Guttuso, Giorgio de Chirico, Elsa Morante, alle Giubbe Rosse di Firenze, teatro di una zuffa tra i futuristi milanesi di Marinetti e gli artisti fiorentini capitanati da Ardengo Soffici, e dove, si vocifera, persino Lenin andasse a giocare a scacchi.
IMMAGINARIO
I bar sono anche un luogo dell’immaginario, dove il bullo Oscar Pettinari (Carlo Verdone) si ritrova a giocare a flipper, nel film Troppo forte (1986); dove il commissario Maigret sorseggia il suo Calvados, a due passi da Quai des Orfèvres; e sono il ritrovo abituale dei vecchietti del BarLume che nei romanzi di Marco Malvaldi e nella serie omonima risolvono casi efferati con gran dispendio di vernacolo toscano. Ma sono soprattutto punti d’incontro reali, come quel Café Central di Vienna in cui si recava a giocare a scacchi un certo Lev Davidovi Brontejn, che andrà a fare la rivoluzione con lo pseudonimo di Lev Trockij. Attorno a quegli stessi tavoli, al pianterreno di un elegante palazzo neorinascimentale, che ospitava anche la Borsa di Vienna e la Banca Nazionale Austriaca, andavano a bere scrittori come Hugo von Hoffmansthal, ma anche – nel bene e nel male – futuri protagonisti della Storia, da Adolf Hitler a Sigmund Freud, da Josip Broz Tito a Theodor Herzl.
È però Parigi, all’inizio del Novecento, la mecca di artisti e scrittori, e tutti si raccolgono attorno al bancone di un bar. Ernest Hemingway era uno di questi: l’autore di Per chi suona la campana potrebbe essere raccontato attraverso i caffé che frequentava, e dove prediligeva scrivere, dalla Bodeguita del Medio dell’Avana a Les Deux Magots di Parigi, un locale che ospitò le riunioni dei surrealisti André Breton e Apollineare, ma anche degli esistenzialisti Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Solo, in un angolo, sedeva Albert Camus, che con Sartre aveva più di un’opinione contrastante. E capitava che passassero a prendere un drink Picasso, James Joyce, Bertolt Brecht.

CATALIZZATORE
A Parigi il salotto di Gertrude Stein era il catalizzatore di quella che lei stessa aveva definito la generazione perduta degli artisti americani. Hemingway ricorda che la scrittrice lo apostrofò così: «Ecco cosa siete, voialtri che avete fatto la guerra, una generazione perduta. Non avete rispetto per niente e per nessuno. Vi rovinate la salute a furia di bere».
Per bere servivano ovviamente i bar, e lo scrittore che più tardi vincerà il Pulitzer e il Nobel malgrado i bicchieri di troppo, ne frequentava parecchi. «Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile». Erano habitué del salotto della Stein Francis Scott Fitzgerald e la moglie Zelda; e l’autore del Grande Gatsby, racconta lo scrittore dell’Illinois, finisce per fare la fine dei suoi personaggi, trascinandosi da un bar all’altro senza riuscire a scrivere.

ASSALTI
Hemingway era anche un frequentatore del bar del Ritz, negli anni Venti, dove Cole Porter aveva composto uno dei suoi brani più noti, Begin the Beguine. L’hotel era diventato, durante la seconda guerra mondiale, il quartier generale dei nazisti e si racconta che quando lo scrittore tornò a Parigi, nel 1944, si presentò armato e minaccioso, con l’intenzione di liberarlo; quando gli dissero che i tedeschi se n’erano già andati, abbandonò la pistola e si scolò la bellezza di 51 Martini dry.
Dall’altra parte dell’Oceano, a Buenos Aires, si trova un altro locale dalla storia straordinaria, il Café Tortoni: oggi in un angolo si vedono tre statue attorno a un tavolo, che raffigurano altrettanti consumatori abituali di un tempo: Jorge Luis Borges, il tanguero Carlos Gardel, e la poetessa Alfonsina Storni. «I miei gusti – diceva l’autore di Finzioni – vanno dalle clessidre alle mappe, dai caratteri tipografici del diciassettesimo secolo, al gusto del caffé e alla prosa di Robert Louis Stevenson». 

ORIENTE
Proprio il caffé, l’oro nero importato dall’Oriente nel Seicento, ha fatto dei bar degli incubatori senza eguali di creatività politica e sociale? I locali che lo servivano, già all’epoca di Goldoni, sono luoghi di sociabilità e scambio, e presto anche di seduzione o di adescamento. Gli illuministi milanesi Pietro e Alessandro Verri, in pieno Ottocento, chiamano Il Caffé il foglio a cui danno vita per diffondere le proprie idee. Il nome successivo bar deriva, sembra, dalla parola inglese che indica la sbarra corrimano posta sotto al bancone. Ogni scrittore ha il suo bar di riferimento. Dario Fo preferiva il Caffé Pedrocchi di Padova, frequentato anche da Stendhal; Stieg Larsson è stato un frequentatore del Mellqvist Kaffebar di Stoccolma; The White Horse Tavern di New York aveva tra i suoi clienti Jack Kerouac e Anaïs Nin. Oggi, come nella canzone, gli amici al bar diminuiscono, fino a sparire del tutto. Ma, in fondo, «i più forti siamo noi, qui non serve mica essere in tanti».