Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2021
Le imprese familiari italiane durante la pandemia
Reattive per necessità, più protettive nei confronti dei dipendenti e premiate per la loro prudenza sui mercati finanziari. Ma in molti casi ancora poco propense al passaggio generazionale e ad aprirsi a figure esterne. Le imprese di famiglia italiane all’epoca del Covid appaiono così, secondo l’anticipazione della 19esima edizione del «Global family business report» di Kpmg e Step Project che verrà diffuso a fine mese e il rapporto «The Family 1000» di Credit Suisse. Due osservatori privilegiati per analizzare una realtà che conta circa 800 mila imprese familiari nel nostro Paese, l’85% del totale, dove lavora il 70% degli occupati.La prima ricerca ha messo a confronto le risposte dei responsabili di 2.493 aziende familiari globali – oltre 100 in Italia (il 60% di esse appartenenti al settore manifatturiero ) – per far luce sull’impatto della pandemia sull’attività e sulle misure messe in campo per fronteggiare la crisi. Il Covid, con le misure di contenimento e il lockdown, ha colpito duro, soprattutto nel nostro Paese, dove l’81% delle imprese familiari ha registrato un calo dei ricavi contro il 69% a livello globale. Solo nel 7% dei casi non si è avuto alcun impatto (rispetto al 22% a livello mondiale). Ma c’è un primato tutto italiano: il 12% è riuscito a domare la tempesta e ha visto il proprio fatturato crescere anche in tempi difficili. La media mondiale si ferma al 9%, con punte dell’11% solo in Europa e nelle Americhe (Usa e America Latina). «Chi aveva una presenza stabile sui mercati internazionali e aveva già investito nel digitale – sottolinea Silvia Rimoldi partner di Kpmg – ha avuto un vantaggio competitivo ed è riuscito a cogliere opportunità anche in tempi di crisi».Il taglio dei costiOvunque per fronteggiare la pandemia si è agito sulla leva dei costi (il 41% delle imprese familiari ha scelto questa opzione). In Italia, in particolare, le azioni intraprese hanno riguardato la riduzione della spesa per il marketing, mentre nel resto del mondo la sforbiciata si è concentrata sulle voci amministrative. Poco più di un’azienda familiare su tre (il 37% in Italia e il 36% nel mondo) ha invece agito sul costo del lavoro. Qui spicca un’altra differenza. Il numero di dipendenti delle imprese familiari del made in Italy rispetto al periodo pre-Covid è diminuito meno del 3% (-2,93% per l’esattezza) contro una media mondiale dell’8,56%. La forbice va dal 4,3% in Europa al 20% e Medio Oriente e Africa. Un dato che si spiega non solo con il blocco ai licenziamenti deciso dal decreto Cura Italia, ma che rivela l’essenza delle imprese familiari del nostro Paese, dove il nucleo di partenza ha un ruolo decisivo, come fa notare Andrea Calabrò, direttore di Step, organizzazione internazionale che indaga sulle dinamiche delle imprese familiari. «A differenza di altri Paesi, in Italia – dice – si è fatto leva sulle risorse finanziarie della famiglia e non sono state intraprese scelte radicali di ristrutturazione come reazione alla pandemia. Ha aiutato anche la memoria storica: molte famiglie hanno già vissuto l’esperienza di eventi come la guerra mondiale e questo bagaglio ha contribuito a rendere le imprese più resilienti».In Italia gli interventi sul lavoro hanno riguardato principalmente lo smart working dei dipendenti, mentre in Asia-Pacifico sono state congelate le assunzioni e in Medio Oriente e Africa sono stati ridotti gli stipendi.Le «credenziali alfa»Le difficoltà, come mostra il report di Credit Suisse, non hanno scalfito le”credenziali alfa” delle imprese familiari quotate. «Monitoriamo la loro performance ormai da molti anni. Abbiamo riscontrato – dice il Presidente di Credit Suisse Urs Rhoner – uno schema regolare di redditività nonché rendimenti stabili e più elevati attraverso l’intero ciclo per tutti gli azionisti, partecipazioni di minoranza incluse». Tanto che nel primo semestre 2020 le imprese familiari hanno mostrato sui mercati finanziari rendimenti superiori in media di 300 punti base in più rispetto a quelle non familiari. Non solo. «Gli investitori con cui ci confrontiamo sul tema– gli fa eco Eugène Klerk, responsabile Global ESG Research Product di Credit Suisse, spesso sostengono che la loro migliore performance rispetto alle imprese non familiari sia legata a un approccio di investimento più a lungo termine. La nostra analisi va proprio in questa direzione. Il modello finanziario tradizionalmente più conservativo delle imprese familiari, basato su un minor grado di indebitamento e su una solida generazione di flussi finanziari, si è rivelato una risorsa chiave».Ritardo culturaleDiverso è stato poi l’approccio allo scenario più estremo, ma purtroppo reale, quando cioè un componente della famiglia attivo in azienda si è ammalato di Covid. In Italia, come mostra la ricerca di Kmpg e Step, nel 60% dei casi ha continuato a lavorare da casa, mentre nel mondo solo il 37% delle imprese ha seguito questa strada. Anzi, in seguito all’emergenza il timone è passato, anche solo temporaneamente, a un parente della stessa generazione (4%) o di quella successiva (6%). «La pandemia – afferma Rimoldi – poteva essere l’occasione per un cambio di rotta, invece ha messo in luce le fragilità e il ritardo culturale italiano». Aggiunge Calabrò: «Oggi le imprese sono sottoposte a una grande sfida tecnologica e proprio il maggior coinvolgimento di familiari più giovani può rivelarsi una carta vincente.Il tema cruciale nel passaggio generazionale è il trasferimento dello spirito d’impresa che è il valore aggiunto delle realtà familiari». La staffetta, aggiunge Rimoldi, va preparata per tempo, quando il leader d’azienda è intorno ai 50 anni. Spesso, inoltre, questo momento riguarda esclusivamente il figlio primogenito e c’è poco coinvolgimento delle donne. Al tempo stesso le imprese familiari italiane appaiono poco propense ad aprirsi a manager esterni, come avviene invece in altri Paesi. «La famiglia – conclude Rimoldi – ha agito da àncora garantendo solidità e stabilità in tempi difficili. A volte, però, è necessario navigare in mare aperto perché la discontinuità è un fattore decisivo per la crescita».ì