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 2021  marzo 10 Mercoledì calendario

Il secolo breve di Gianni Agnelli

Gianni Agnelli icona che trasfonde nel mito o Gianni Agnelli personalità emendata dall’ossessione degli aneddoti, da analizzare per la sua funzione storica? 
A cento anni dalla sua nascita – avvenuta il 12 marzo 1921 – vale la pena adoperare la seconda chiave di lettura. Dimentichiamo Pamela Churchill e Jacqueline Kennedy, Omar Sivori e Michel Platini, Andy Warhol e gli Agnelli prima famiglia del Paese avvolta nell’epica, da servire o da detestare, sempre in silenzio.
Proviamo a concentrarci sulla natura storica dell’Avvocato. Il primo elemento ha una valenza geo-politica: dal 1945 Gianni Agnelli è uno dei punti di intersezione fra gli Stati Uniti e l’Italia. Dalla Seconda guerra mondiale, l’Italia esce distrutta. Nelle strutture economiche e sociali. E, agli occhi di molti a Washington, non bastano la Guerra civile promossa dai partigiani e l’opera avviata dal 1943 dal Comitato di Liberazione Nazionale, soprattutto perché ne fanno parte il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano. A costruire il ponte fra gli Stati Uniti e l’Italia concorrono tre realtà: i cattolici (in particolare degasperiani), la finanza laica (inserita nei circuiti internazionali), l’industria italiana imperniata sulla Fiat. Ci sarà il Piano Marshall. E il nostro Paese riceverà pari dignità rispetto agli altri Paesi europei. Anno dopo anno, presso gli ambienti più severi verso l’Italia, uno dei garanti sarà Gianni Agnelli.
Questa funzione – esercitata nelle relazioni personali –viene interpretata durante il Centrosinistra e negli anni dell’espansione nelle amministrazioni locali e nel governo sostanziale del Paese da parte del Pci. La funzione di garanzia e di fluidificazione – compiuta a livello di élite fra Torino e New York, Roma e Washington – contribuisce a inchiavardare l’Italia alla dimensione atlantica, è testimoniata anche dalla scelta americana di non contrastare la costruzione da parte della Fiat nel 1966 in Unione Sovietica, nella nuova città di Tolyatti (Togliatti) sulle rive del Volga, dello stabilimento AvtoVAZ e non cade nemmeno quando nel 1976 Lafico – la Libyan Arab Foreign Investment Company del colonnello Gheddafi, nemico degli americani nel Mediterraneo – rileva un partecipazione consistente (all’inizio il 9%, poi fino al 15,9%) di una Fiat in grave crisi. Dietro all’immagine di Gianni Agnelli in tribuna allo stadio Comunale di Torino con Henry Kissinger, c’è esattamente questo.
La seconda cifra storica di Gianni Agnelli è di natura geo-industriale: Gianni Agnelli non ha mai guidato le sue fabbriche – preferendo lasciare questa incombenza a manager come Vittorio Valletta, Gaudenzio Bono, Carlo De Benedetti, Vittorio Ghidella e Cesare Romiti – ma ha sempre avuto una idea precisa della missione storica della Fiat e dell’auto. Anche in questo caso, le sue scelte hanno una connaturata dimensione occidentale, insieme europea e americana. L’imponenza di Mirafiori – due milioni e centocinquanta mila metri quadrati di estensione e venticinque chilometri di ferrovie interne, le gigantesche fonderie e le mastodontiche linee produttive – e la solidità, almeno fino agli anni Novanta, del sapere tecnico degli ingegneri e degli operai rappresentano la declinazione torinese e italiana della cultura industriale del fordismo e del taylorismo, uno dei cardini economici e tecnologici, sociali e culturali del Novecento. Torino come Detroit. Il riferimento continuo, anche nei discorsi, alla General Motors. Il motto attribuito a Gianni Agnelli “Quello che è per buono per la Fiat è buono per l’Italia” è la traduzione nella nostra lingua e l’adattamento alla nostra realtà nazionale di “Quello che è buono per la General Motors è buono per la nazione”, frase pronunciata da Charles Erwin Wilson, presidente nel 1941 di GM e poi nel Secondo dopoguerra Segretario della difesa degli Stati Uniti. 
Dunque, la fabbrica come uno dei fattori della natura geo-industriale dell’Occidente.
Il terzo elemento della cifra storica di Gianni Agnelli è politico: negli anni Settanta, una stagione ad alta conflittualità e a incessante violenza, è fautore della ricerca di soluzioni sistemiche in cui le istituzioni e le strutture sociali operino l’intermediazione e favoriscano la conciliazione. Nulla di etico o di moralistico. Soltanto una precisa idea della meccanica delle cose. L’esempio principale è l’accordo del 1975 per la scala mobile a punto unico – poi rivelatosi inefficace e lesivo per il funzionamento dell’economia e della società italiane – sottoscritto in qualità di presidente di Confindustria con i sindacati Cgil, Cisl e Uil. Anche in questo, Agnelli è profondamente novecentesco.
Il quarto elemento della sua cifra storica è culturale: l’identificazione fra impresa e destino nazionale, o meglio fra destino dell’impresa e nazione. Agnelli è, insieme, un viaggiatore cosmopolita e un cittadino piemontese e italiano. Nessun periodo storico come il Novecento – con le sue cesure e le sue continuità, le sue tragedie e le sue vitalità – ha avuto una coesistenza così feconda fra elementi identitari e propulsioni internazionali, radici conficcate nella propria terra e rami che si protendono verso il cielo del mondo. Per Agnelli la Fiat è, appunto, la Fabbrica Italiana Automobili Torino.
Nella sua vita, che per il fascino e le contraddizioni avrebbe potuto essere la trama di un libro di Thomas Mann o di Truman Capote a seconda del punto di vista europeo o americano scelto, era impensabile la cessione del controllo della Fiat ad altri. Tanto che la separazione dei destini degli Agnelli dalla Fiat e dell’Italia dagli Agnelli viene da lui rifiutata quando Paolo Fresco propone la conveniente – sotto il profilo finanziario – fusione con Daimler, perché il controllo del nuovo aggregato sarebbe spettato ai tedeschi. Un controllo immediato e totale, invece, non previsto nell’accordo con la General Motors, più coerente appunto con la sua cifra geo-politica e geo-industriale. Gianni Agnelli, dunque, uomo di un altro secolo, il Novecento.