Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  marzo 10 Mercoledì calendario

Tra i reduci di Fukushima

Quell’11 marzo di dieci anni fa la marea si insinuò quasi impercettibile tra le fitte abitazioni di Rikuzentakata city sulla costa della prefettura di Miyagi. «Sentivamo solo il "bari-bari"», ricorda Kumiko, 63 anni, tra i superstiti di quel giorno. Bari-bari è l’onomatopea (figura retorica utilizzatissima nel giapponese moderno) che descrive il suono di un’intera cittadina mentre viene demolita, accartocciata, casa dopo casa. Qui perirono più di mille persone. La città ancora oggi è una piatta landa desolata.
Kumiko lavora nei pressi del nuovo mercato cittadino, quello vecchio è ancora lì a pochi metri di distanza, un rudere abbandonato che ha fermato il tempo in quel preciso istante: una targa ad altezza vertiginosa, 14.5 metri, ricorderà per sempre ai posteri sin dove l’oceano ha lasciato le sue impronte.
Solo un albero svetta ora, l’unico sopravvissuto di una piccola foresta a ridosso della costa livellata come una savana. Rikuzentakata è solo uno dei siti del Tohoku che subirono i peggiori effetti di quel poderoso terremoto 9.1 sulla scala Richter e conseguente tsunami (tra i più micidiali che la storia – non solo giapponese - ricordi). Tsunami che poi indirettamente generò (mettendo fuori uso le pompe di raffreddamento d’emergenza) l’esplosione e la conseguente scarica di radiazioni della centrale di Fukushima ancora oggi in via di smantellamento.
Cento chilometri più a Sud, a Ishinomaki, morirono 3286 persone, falciate da un’onda che viaggiava - su terra - a 45 km l’ora. C’è chi ha tentato la fuga in auto e si è ritrovato inghiottito nel traffico. La scuola elementare è ancora lì, isolata e decrepita a ricordo delle vittime. Oggi nessuno penserebbe a Ishinomaki come a una città di mare, semplicemente il mare non si vede più. Da allora si erge una possente barriera, un’enorme incudine di cemento tra l’abitato e la costa. La ragione tecnica di questa ciclopica soluzione non è bloccare il prossimo tsunami, ma fiaccarlo.
L’altezza del maremoto
Nei giorni che seguirono il panico, si disse che moltissimi non si erano messi in salvo perché gli allarmi avevano sbagliato a stimare l’altezza del maremoto. Le cose non stanno esattamente così. Di allarmi che annunciarono uno tsunami di 6 metri (abbastanza da far correre ai ripari chi vive davanti il mare) ce n’erano stati eccome, ma vennero ignorati. In giapponese esiste un detto, «kioku fuka o suru», la memoria si perde nel vento. Per anni, tsunami grandi e piccoli venivano annunciati dai grandi megafoni sparsi per le città costiere, ma puntualmente la grande onda o era del tutto inesistente o si rivelava di pochi centimetri. Chi «mente» sempre, alla fine, quando conta, non viene creduto. La favola di Esopo (al lupo, al lupo) è nota anche da queste parti.
«Conosco persone che sono rimaste in casa sentendosi al sicuro al secondo piano», dice Kenichi-san che da 3 anni è il custode di un museo dedicato alla tragedia. L’edificio è visibile da chilometri di distanza, si trova nel mezzo del bacino di terra spazzato via. Delle 1800 case, solo 5 restarono in piedi.
Per affrontare il prossimo tsunami la città ha previsto centinaia di metri di quello che molti ormai hanno ribattezzato «banri no choujo», la grande muraglia. Ma la soluzione ha finito per scontentare tutti. «Il governo preferisce spendere i soldi in infrastrutture, piuttosto che provvedere a una casa per gli sfollati», continua Kiyoshi-san, che si trova lungo il muro a passeggio con il cane. Metà della terra dove sorgeva la cittadina è stata acquistata dal governo per farne un parco dedicato alla memoria delle vittime. Un’opera lenta e dai costi altissimi.
A cui si aggiunge la beffa supplementare dei Giochi di Tokyo del 2020, che secondo alcuni hanno condizionato gli sforzi di ricostruzione in molte aree devastate. È successo, infatti, che per apparecchiare in tempo la Tokyo olimpica si è creato un deficit di materiali da costruzione. Nella prefettura di Iwate la riedificazione di una palestra civica danneggiata ha affrontato ritardi clamorosi per via della carenza di travi d’acciaio e bulloni. Tutto ciò nonostante la reclamatissima volontà di Tokyo di ri-battezzare l’evento – poi rimandato causa Covid - come le «Olimpiadi della ricostruzione» (dove per ricostruzione si intende appunto quella post-Fukushima).
«Si è optato per il muro semplicemente perché il 100% dei costi se l’è accollato il governo centrale, e la prefettura ne vuole approfittare». È il commento di Tadashi, la sua casa si trova a due passi da dove fu registrato uno dei video più drammatici di quel giorno, «è una grigia barriera che copre la vista del mare e deprime tutti».
La soluzione «muro» contro gli tsunami ha conquistato i giapponesi dopo il caso di Taro (cittadina nella prefettura di Iwate), che ha fatto scuola. Nel 1934, nel piccolo centro urbano, innalzarono una barriera di dieci metri di altezza per due e mezzo di larghezza: per completarla ci vollero ben 44 anni. Nel 1896 uno tsunami aveva spazzato via il 70% degli abitanti, e nel 1933 un altro aveva falciato un terzo della popolazione.
Quella muraglia è diventata una celebrità istantanea nel 1960 quando si è frapposta con successo fra il mare e la città nell’ultimo grande tsunami del secolo scorso, quello ribattezzato del «Cile» (partì dal Sudamerica). Ma di fronte a quel che è accaduto nel 2011 non è servita a niente, l’oceano è passato sopra a tutto, uccidendo più di 200 persone.
«Ci saranno altri terremoti e dunque altri tsunami, perfino più alti di quello recente», afferma con brutale convinzione Satoshi, manager di un Hotel di Kamaishi dove quel giorno hanno perso la vita più di mille persone.
Anche qui il muro di allora (del tutto impotente) è stato aggiornato con una doppia corazza. Quando domandiamo a Satoshi se i muri, nonostante tutto, rendano meno ansiogena l’esistenza dei residenti, lui risponde così. «Tra di noi qui c’è un detto. Al prossimo tsunami non pensare al muro, pensa a scappare».