Nel giardino della casa romana di Nino Manfredi spicca un grande nespolo: «In quei rami fitti che ondeggiano al vento ci vedo papà che mi saluta» dice il figlio Luca, regista, al centro dei progetti che accompagnano il centenario del padre, nato il 22 marzo del 1921.
Due libri e un documentario, complementari gli uni agli altri. Alla ricerca di Nino Manfredi di Andrea Ciaffaroni, edito da Sagoma, è un volume poderoso che ne ripercorre la carriera attraverso gli incontri e le testimonianze di colleghi, amici e familiari, tra cui Luca. Che però ha voluto scrivere, di getto, Un friccico ner core , sorta di diario snello e intimo, per Rai Libri: «Mi serviva a chiudere il cerchio nel rapporto tra me e papà».
A 62 anni, Luca firma anche il documentario Uno, nessuno, cento Nino in onda il 22 marzo su Rai 2.
Racconta con lucida consapevolezza del talento paterno ma la voce si colora di rimprovero, se non di rancore, quando si affronta il privato. I bambini ci guardano, e da grandi ci raccontano.
“Un friccico ner core” non è un libro celebrativo.
«Non cercavo il santino. Volevo mettere le cose a posto dentro di me. Ta noi ci sono state liti, difficoltà, incomprensioni. Mi sembrava bello e doveroso raccontarlo come l’ho vissuto io, senza sconti, da figlio che ha cercato un padre complice che non ha trovato, ma anche da regista che ha lavorato con l’artista e lo ha ammirato. Al di là delle critiche, delle sue assenze è un ritratto affettuoso della sua complessa personalità. Se penso a Geppetto ePinocchio dico che questo è un abecedario del nostro rapporto, aneddoti intimi, curiosi, divertenti ma a volte dolorosi. Se era in buona, papà era divertente, ti raccontava barzellette esilaranti, ma c’erano momenti in cui dovevi girargli al largo».
Ne ha seguito le orme artistiche.
«Proprio per la sua mancanza da genitore chiedevo a mamma di accompagnarmi sui set per vederlo.
Sono cresciuto nel mondo magico dove nascono le storie. Per timidezza, convinto da mio zio chirurgo, mi iscrissi a Medicina. Al quarto anno, davanti alla prima operazione sono svenuto. Mio padre la prese male, mi vedeva già sistemato con il fratello, si sentiva sollevato. Ho iniziato a lavorare come assistente fotografico in uno studio di pubblicità e poi come copywriter.
Il destino ci ha fatto incontrare quando lui, testimonial del caffè, scontento delle idee dell’agenzia piemontese, mi chiese se avessi proposte. Abbiamo lavorato insieme per quindici anni, dopo il caffè sono arrivate le serie e il film per il cinema».
Cosa rappresenta suo padre per il cinema italiano? È stato ricordato abbastanza?
«Tre anni fa gli ho fatto un omaggio,
In arte Nino , con Elio Germano, proprio perché mi ero accorto, al compleanno di mio figlio sedicenne, che nessuno dei suoi compagni lo conosceva. Ricordavano a malapena il Geppetto di Pinocchio ».
Qual era l’unicità di suo padre come attore?
«Era il più americano di tutti. Sordi era un istintivo, papà aveva studiato molto all’Accademia, Orazio Costa gli faceva interpretare il cielo, la pioggia, la formica. Un grande lavoro sul corpo. La sua naturalezza era costruita a tavolino, Risi lo chiamava “l’orologiaio” per la precisione con cui costruiva i personaggi per poi sparirci dietro: l’emigrante di Pane e cioccolata , il portantino di C’eravamo tanto amati . Faceva convivere l’anima lieve e ironica con quella malinconica e drammatica. Con un fondo di onestà e senza il cinismo dei personaggi di Sordi e Gassman».
Quali colleghi erano suoi amici?
«È sempre stato un outsider. Era grato a Gassman che lo aveva scelto in Accademia per la sua compagnia e lo aveva difeso quando alle prove aveva fatto scena muta. Con Tognazzi erano amici, litigarono sul set quando Ugo si presentò senza sapere le battute e papà, che era un soldato, fermò la scena: “Chiamatemi quando il signore saprà la sua parte». Fecero pace l’estate di qualche anno dopo, al Villaggio Tognazzi. Tra i registi ha amato Risi, Scola, Loy, Comencini.
Con Magni ha condiviso la stagione dei film sulla Roma papalina, Gigi era uno zio, per noi».
Nel libro si racconta il radicato rapporto con la terra.
«Un famoso architetto gli fece un progetto ultramoderno, lui nella casa volle un pollaio e il nespolo, che gli regalò un operaio e che era all’epoca piuttosto striminzito».
L’immagine a cui lei fissa suo padre è quella dell’immigrato di “Pane e cioccolata”.
«L’emigrazione è nel dna della nostra famiglia, nonno Giovanni, suo padre, è stato 32 anni minatore in America. Nino stesso era emigrato dalla Ciociaria a Roma. Il padre lo costrinse a laurearsi in Legge, discutendo la tesi spiegò alla commissione che faceva l’Accademia. Finì che si esibì nell’ Arlecchino di Goldoni, fu promosso col 92».