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 2021  marzo 10 Mercoledì calendario

«Mio padre John le Carré»

Questa era la sua penna. La penna nera con cui John le Carré scriveva i suoi romanzi ». Con una punta di commozione, Nick Harkaway ce la mostra, nell’arcadica casa dei genitori a Land’s End. La fine della terra, spigolo occidentale dell’immacolata Cornovaglia. «È tenuta con lo scotch. Papà non ha mai voluto cambiarla. Non so perché».
Questa candida magione sull’Atlantico ha custodito per 50 anni l’amore e la passione letteraria tra John le Carré e la sua seconda moglie e “musa” Valerie Jane Eustace. Causa lockdown, ospita da mesi anche il loro unico figlio, Nick Harkaway. Ora, però, è un nido di lutti e ricordi. Perché, come in Anna Karenina di Tolstoj, «tutte le famiglie felici si somigliano. Ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo».
«Da questa casa», racconta Nick, 49 anni, con gli occhi umidi e la voce increspata, «martedì 8 dicembre papà si è diretto in ospedale (il Royal Cornwall di Truro, ndr ), dove è stato ricoverato per una polmonite, non Covid. Venerdì 11 è stata ammessa anche mia madre Valerie, dopo una lunga malattia». Il giorno dopo, sabato, John le Carré muore a 89 anni. «Papà e mamma erano separati da un piano. Ma, a causa delle norme anti Covid, non si sono potuti baciare, né abbracciare o salutare, per l’ultima volta ». Per le stesse ragioni, neanche Nick ha potuto dire addio a suo papà, vero nome David John Moore Cornwell, ex agente segreto e leggenda della letteratura contemporanea con La spia che venne dal freddo , l’inimitabile Smiley, Il sarto di Panama ,l’epopea della Guerra Fredda. «Non credevamo che papà potesse morire così presto, pensavamo di trascorrere il Natale insieme. L’ultima cosa che posseggo di lui è un messaggio in segreteria telefonica, due giorni prima di andarsene: “Ciao figliolo, sono qui in ospedale, è terribile. Ti voglio bene”. Lo riascolto ogni giorno. Mia madre, invece, l’abbiamo riportata a casa. Almeno, sabato 27 febbraio, le ho stretto le mani mentre spirava ».
Qualcuno in Inghilterra ha scritto che Valerie sia morta a 82 anni “di crepacuore”: «Molto romantico. Ma a mia madre purtroppo non era rimasto molto da vivere. Certo, dopo l’addio di papà, era molto triste”, racconta Harkaway, che in Inghilterra è un celebre scrittore, molto più che in Italia, dove dieci anni fa è stato pubblicato il suo notevole esordio Il mondo dopo la fine del mondo per Mondadori. Poi basta. «Ma in estate uscirà una nuova traduzione per Edizioni BD e nel 2022 sarà la volta anche di un altro mio romanzo, Tigerman ” ». In un’Italia che Harkaway ama, per i suoi tour giovanili in Lombardia e a Cefalù.
Ma il figlio di John le Carré è uno scrittore diverso dal padre. Il suo vero mentore è l’amico William Gibson e infatti le opere di Harkaway schizzano tra distopie, fantascienze, ultra-tecnologia. Ma le Carré, del quale Nick rivela in questa intervista esclusiva a Repubblica il suo lato intimo, segreto e paterno, non lo ha mai raccomandato: «Sarebbe stato facile: a casa nostra sono passati i massimi editori e agenti inglesi». Invece, nel 2008, Harkaway sottopone Il mondo dopo la fine del mondo in forma anonima: l’agente lo approva e strappa all’editore William Heinemann 300 mila sterline di anticipo.
Ma perché, come suo padre, anche lei Harkaway usa uno pseudonimo?
«Il mio vero nome, Nicholas Cornwell, sarebbe stato un problema. Ce ne sono troppi di scrittori chiamati così: Patricia, Bernard… Non mi avrebbe notato nessuno».
Ma suo padre le dava consigli di scrittura?
«Mi hanno aiutato molto le storie che ci raccontavamo io, papà e mamma, a tavola e la sera, sin da bambino: il mio primo storytelling».
Le Carré ha sempre lodato il ruolo di Valerie nei suoi romanzi.
«I miei genitori si conobbero oltre mezzo secolo fa, quando mia madre vendeva i diritti all’estero per papà.
Subito svilupparono una partnership amorosa, creativa e professionale, molto fertile. Ovvio che i libri erano figli di John le Carré, ma Valerie offriva “equilibrio” e suggerimenti. A volte facevano copia-incolla di manoscritti di papà, letteralmente: con il nastro e la colla, attaccando, spostando capoversi».
Le Carré e sua madre volevano che anche lei diventasse scrittore?
«Il contrario!»
Come mai?
«L’idea li terrorizzava. Forse temevano che fallissi? Non so. Ho studiato scienze politiche, poi ho lavorato da sceneggiatore per il cinema. Ma non ero soddisfatto.
Così, a un certo punto, ho deciso di diventare romanziere anch’io».
La turbava che suo padre fosse uno scrittore - e che scrittore?
«Sì. Perciò da giovane mi ero tenuto alla larga dalla letteratura. Inutile usare una torcia quando di fianco hai un faro…».
Temeva la competizione con suo padre?
«No. Quando posso far felice un amico, perdo volentieri. Papà invece era ultra-competitivo.
Sempre. Quando ricevevo una buona recensione era felicissimo, ma sul suo volto c’era una ruga di gelosia. E se giocava a ping-pong col nipote di 5 anni, voleva vincere… Forse ha sviluppato questo senso della competizione nell’infanzia difficile che ha avuto, con un padre-truffatore, che lo portava a scommettere con lui. E negli ultimi anni era sempre peggio: con la vecchiaia era cresciuta a dismisura la sua paura di perdere».
Qual è il più bel ricordo che ha dei suoi genitori insieme?
«Lo scorso autunno: seduti su una panchina, mano nella mano, ridevano come due ragazzini, ottantenni e innamorati. Si adoravano. Erano riusciti nell’impresa di intrecciare amore, arte e lavoro, per sempre. Anche per questo la loro storia è durata 50 anni e per me sono ancora un po’ vivi».
Però anni fa le Carré disse che i «tradimenti erano fondamentali» per il suo processo creativo.
«Non so quali relazioni extra matrimoniali papà avesse. Ma ha fatto sì che non me ne accorgessi mai».
Prima di morire, le Carré è riuscito a completare un nuovo romanzo?
«Ne stava scrivendo uno, fino alla settimana prima di morire. Ha lasciato testi inediti. Ma ancora dobbiamo ancora capire se c’è qualcosa di pubblicabile».
Meglio le Carré scrittore o le Carré padre?
«Beh, ha avuto tantissimi riconoscimenti come autore… ma ho avuto sempre un rapporto straordinario, amichevole, genuino con lui. Eravamo perfetti “Father & Son”. Condividevamo tutto, anche le idee politiche: Dio, quanto era disgustato dalla Brexit… Non ho alcun rimpianto. Ma mi mancherà, terribilmente».
E qual era la qualità migliore di papà le Carré?
«La sua profonda gentilezza. Credo che derivasse sempre dall’infanzia infelice. Non voleva che altri bambini soffrissero come lui, e così, quando vedeva un nipotino taciturno in casa, era il primo a giocare con lui. O a fare il pagliaccio per farlo ridere. Una volta, per sbaglio, mi calpestò goffamente una matrioska: fu costernato, per giorni. Essere gentili: la più bella lezione di mio padre, John le Carré».