la Repubblica, 10 marzo 2021
Enrico Letta come il conte di Montecristo
Nello stanco, ma pur sempre appassionato romanzo d’appendice che continua a scorrere parallelo alla tecnocrazia che governa, da un paio di giorni si staglia all’orizzonte del Pd la figura del Letta di Montecristo. Che come l’omonimo conte di Dumas potrebbe ritornare ricco e potente per consumare la sua, o meglio le sue molte e in fondo anche comprensibili vendette e già questo rende l’eventualità più suggestiva che reale. Però.
Però forse quegli stessi oligarchi che sette anni fa non fecero nemmeno un sospiro quando il perfido Renzi licenziò il povero Enrico, e per giunta pochi giorni dopo aver raccomandato di “stare sereno”, ecco, forse solo adesso cominciano a rendersi conto non tanto del disastro in cui hanno precipitato il Pd, che sarebbe chiedere troppo, ma almeno del pasticcio in cui si sono infilati nel momento meno opportuno. Gli impicci delle donne, le geniali strategie andate a male, la sete di potere delle correnti, la paralisi a Roma, Napoli, Torino, la Calabria, il colpo di testa di Zingaretti, per molti la prospettiva di ritrovarsi senza stipendio, scrivania e seggio garantito in Parlamento, insomma, tutto questo e magari anche altro che si cerca di tener nascosto fa sì che si guardi a chi è lontano e senza peccato. Post-democristoidi o soci della ditta pidiessina non fa differenza: tutti allora mollarono Letta per Renzi, tutti ora devono riconoscere che sarebbe molto utile e comodo, con l’abituale operazione di vertice, richiamarlo dal fervido e prestigioso esilio accademico di Parigi e affidargli i cocci.
Ora, è possibile, anzi forse è probabile che quei quattro o cinque brillanti ottimati non abbiano capito bene che aria tira in Italia; che la pandemia e il governo Draghi chiudono un ciclo per certi versi storico; che non basta più scegliere uno migliore di loro per continuare ad essere se stessi e poi cucinarselo. Dal cannibalismo all’autofagia si misura per l’esattezza l’odierna crisi del Pd e non solo. Tutto lascia credere che invece Letta lo sappia. Eppure.
Eppure dicono che ha rinnovato la tessera, nella sezione di Testaccio, dove l’ex presidente ed esemplare unico del “ziolettismo” (è nipote di Gianni) abita in un vistoso palazzone chiamato “Il Cremlino”, e dai romani più anziani conosciuto e evocato con orrifico magnetismo perché negli anni 50 una pantera o altra belva incautamente tenuta in una gabbia sul terrazzo dilaniò il portiere claudicante del fabbricato che poveraccio era lì per nutrirla. Ora, sarebbe irriguardoso adattare la triste circostanza ai guai del Nazareno, per quanto vorrà pur dire qualcosa che nella sola giornata di ieri una sardina chiacchierina abbia evocato la tossicità del partito e Casalino, dio lo perdoni, un cancro. Ma pazienza.
Di tutti i possibili candidati al fatale giogo della leadership il Letta di Montecristo sarebbe senz’altro l’ideale. Perché dietro di lui si sente una scuola e a 54 anni possiede ancora energia; inoltre ha cultura e decoro a prova di D’Urso, si è messo alla prova con un’esperienza di governo al massimo livello («nel breve periodo in cui sono s tato presidente del Consiglio» è la formula), ha un’ottima conoscenza dell’Europa, della politica internazionale e molte relazioni importanti oltre alla stima di Mattarella, Prodi, Draghi e Papa Francesco.
Più che le insidie combinate di Base riformista, Area dem, frazione orfiniana e zingarettismo di risulta rema contro l’ipotesi di un ritorno la legge dell’opportunità individuale: chi glielo fa fare? E tuttavia è difficile che non ci abbia pensato. Con lieve irriverenza si può aggiungere che è Quaresima, tempo di sacrificio. Quanto ai maggiorenti del Pd, stessero sereni.