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 2021  marzo 10 Mercoledì calendario

Il Monopoli del virus un anno dopo

Un anno dopo l’impressione è ricominciare da capo, come quando a Monopoli si ritorna in prigione senza passare dal via. La paura si è trasformata in rabbia e stanchezza, e le dimensioni del disastro sono più chiare. I morti sono già 100 mila, uno ogni seicento italiani, come se in ogni scuola fosse morto un bambino. Aspettiamo i vaccini scrutando l’orizzonte come i pionieri dei film western assediati dagli indiani aspettavano il Settimo cavalleggeri. Sembrava di essere precipitati nel Giorno della Marmotta perfino a Sanremo: ancora Fiorello, ancora Amadeus, ancora brutti monologhi finto femministi. Fortuna che Bugo ha cantato da solo. La sua lite con Morgan era stato l’ultimo evento dell’ante-Covid. Eppure in un anno di cose ne sono successe. L’epidemia è stata una lente che ha mostrato quello che stavamo già diventando. Processi in corso da decenni, ma che consideravamo futuro, si sono all’improvviso mostrati come parte del presente.
Sono apparse nuove divisioni sociali, a integrare o sostituire le vecchie. La prima è quella tra giovani e anziani, tra quelli che si sentono vivi se possono uscire e quelli che restano vivi solo se rimangono in casa. È un conflitto oggettivo, che ha rivelato i veri valori della società (come ha candidamente ammesso il governatore della Lombardia, Attilio Fontana: «O riduciamo la gente che va al lavoro o riduciamo la gente che va a scuola»).
Era dai tempi della Prima guerra mondiale che non si metteva sulla pelle dei giovani la responsabilità di salvare quella dei vecchi. “Se non fate i bravi, ucciderete i vostri nonni” è un messaggio violentissimo, soprattutto perché è associato a comportamenti che, fino a ieri, erano associati alla gioia, all’amore e alla crescita: baciarsi, toccarsi, stare insieme, andare a scuola. L’altra divisione, quasi di classe, è tra chi può lavorare da casa e chi per sopravvivere è costretto a muovere il corpo. Le strade sono state invase dai rider, dai trasportatori (ma il ministro Di Maio direbbe «consegnator») e all’improvviso uscire dalla tana per procurarsi qualcosa, come l’uomo ha fatto dalla preistoria cacciando e raccogliendo, non è più stato indispensabile. Per la prima volta le mani con cui afferriamo le cose sono telefonini e computer.
Altre rivelazioni ci hanno cambiato a un livello più intimo, invadendo zone prima inviolabili. L’amore, prima di tutto, nonostante il “knuffelcontact”, il “contatto di coccole” concesso per legge dal Belgio agli amanti occasionali. Ma è cambiata anche la percezione del corpo che si è trasformato in un alleato da proteggere e in un’arma potenziale, ma soprattutto nel confine dietro cui rintanarsi per trovare un po’ di privacy nelle case affollate. Sono cambiati i sogni ed è cambiato il sonno. Chi lavora da casa ha sperimentato il letargo, la strategia con cui per millenni ci si rintanava in attesa del sole, un letargo che si protrae anche oggi, nonostante la primavera in arrivo. L’interruzione dei ritmi di vita ha sconquassato il nostro modo di dormire, travolgendo gli argini che separavano la notte dal giorno, il riposo dal lavoro.
Eravamo così abituati al ritmo del Novecento – otto ore di lavoro, otto di consumo e otto di sonno – da considerarlo naturale, anche quando lo schema era già saltato. L’epidemia ha dimostrato che quella scansione è finita per sempre. Il tempo nuovo si presenta come un impasto in cui sonno/lavoro/consumo sono indistinguibili. Abbiamo fatto la spesa lavorando, lavorato dal letto o dal bagno e consumato sempre, anche di notte, comprando su Amazon o guardando serie su Netflix (non è un caso che il Ceo di Netflix, Reed Hastings, abbia detto in passato: «Il nostro unico competitor è il sonno»). Non si tornerà indietro, almeno non del tutto, anche perché le aziende hanno capito che da casa la produzione non cala e in compenso si può risparmiare sulle sedi e le spese. Ma erano processi già in corso, appunto, che l’epidemia ha accelerato e reso evidenti.
Tutte queste novità e rivelazioni non cancellano, però, la sensazione di essere precipitati in un immobile deja-vu. Gli ultimi dodici mesi sono un fermo-immagine in cui sfilano virologi, camion carichi di bare, riaperture, richiusure, scoperte, zone rosse, gialle e arancioni – ma la Sardegna è bianca! – numeri, curve, vaccini e varianti. Davanti a un presente così sconfortante non è facile sorridere, ma due modi per consolarsi ci sono: rimpiangere il passato e ricordare la vita di prima oppure immaginare il futuro e confidare in quello che accadrà dopo. Purtroppo – ed è una delle tragedie e delle ironie della condizione attuale – passato e futuro si assomigliano, anche se nel futuro avremo imparato a immaginare una vita diversa. All’inizio del 2020 si usciva a cena, si mangiava nei ristoranti, ci si guardava in faccia e ci si affollava in tram o sul metro sputacchiandoci addosso ignari – l’avere vissuto tra gli sputacchi altrui è un’altra delle scoperte dell’epidemia –, si poteva andare ai concerti, a ballare e allo stadio.
Nel 2022 faremo lo stesso, se i vaccini finalmente arriveranno. Invaderemo di nuovo le piazze e balleremo il charleston con una foga da roaring twenties,all’inizio, ma poi piano piano si farà strada il rimpianto per i tempi più lunghi che avremo sperimentato, per il sonno disordinato e i sogni più vividi, per le città vuote e i figli in casa, per essere smontati dalla ruota che, come criceti, avevamo scambiato per l’unica vita possibile. Molti sussurreranno tra sé: io non voglio la vita di prima, non voglio più orari e binari, non voglio più stare nei tram affollati e avere percorsi fissati, non voglio che il mio tempo sia altrui, compresso e ritmato dal mondo, non voglio vedere le stesse persone per anni e passare con estranei la vita, non voglio pause pranzo e incontrare, ogni santa mattina, lo stesso barista. Ma la maggior parte non avrà il coraggio di dirlo, per non offendere chi avrà avuto morti o perso il lavoro.
Tra un anno sarà passato anche Draghi. Per fortuna potremo distrarci, preparandoci alle imminenti elezioni.