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 2021  marzo 09 Martedì calendario

Il Tesoro Usa alla super asta da 120 miliardi

Nelle ultime 24 ore il rendimento dei Treasury a 10 anni si è impennato fino all’1,61%, il livello più alto degli ultimi 13 mesi. In rialzo, fino al 2,3% anche i titoli a 30 anni. È il segnale che gli investitori sono nervosi e che c’è forte pressione sulla carta statunitense. Il tutto peraltro in una settimana chiave per il Tesoro Usa. Perché a partire da oggi parte un ciclo di aste monstre, attraverso il quale chiederà al mercato 120 miliardi di dollari (ripartiti tra 58 miliardi a 3 anni, 38 miliardi a 10 e 24 a 30 anni), necessari per iniziare a finanziare il maxi-piano di stimoli da 1.900 miliardi di dollari approvato nel fine settimana.
Il Tesoro Usa spera di evitare quanto accaduto due settimane fa quando ha fatto fatica a piazzare i 62 miliardi previsto su un titolo a 7 anni. Decisivo è stato l’intervento dei primary dealers, gli operatori che garantiscono liquidità nel mercato delle aste in cambio di avere poi un’esclusiva d’azione nel caso di collocamenti supplementari nei giorni successivi. Ma è stata proprio quell’asta di fine febbraio a creare un clima teso nei giorni a venire anche sul mercato secondario. Perché è la conferma che in questo momento c’è una divergenza tra gli investitori e la Federal Reserve. I primi vorrebbero un intervento della banca centrale per calmare le acque sui tassi – magari congelando dei limiti su certe scadenze oltre il quale il tasso non possa salire – mentre la seconda ritiene un intervento di tale portata (che in gergo tecnico è conosciuto come “manutenzione della curva del debito”) probabilmente eccessivo per le circostanze attuali per le quali ritiene «appropriata» le attuali misure di politica monetaria (120 miliardi di acquisti di titoli al mese).
La divergenza sta nel fatto che gli investitori temono un’impennata dell’inflazione strutturale (quindi non solo in questo 2021 dove è quasi logico aspettarsela dato che si raffronta con un 2020 pandemico e pressoché deflattivo) mentre la Fed, attraverso il suo governatore Jerome Powell, anche la scorsa settimana ha ribadito di non temere che l’inflazione scappi di mano. Sulla stessa lunghezza d’onda il segretario al Tesoro Janet Yellen che ieri in un’intervista alla Msnbc ha detto che «è improbabile» che il nuovo piano di stimoli – che permetterà a milioni di americani di ricevere un assegno mensile di 1.400 dollari – «provochi inflazione e rendimenti dei titoli di Stato troppo elevati». 
Intanto il braccio di ferro va avanti e si gioca a colpi di vendite dei Treasury con conseguente rialzo dei rendimenti a tal punto che la scadenza a 10 anni oggi rende di più del dividend/yield pagato dalle aziende quotate nell’S&P 500 (1,5%). Questo “sorpasso” non aiuta e ha fatto salire la volatilità anche a Wall Street (indice Vix a quota 26, molto lontano dai 12-15 punti in cui viaggia quando il clima è disteso). Il rialzo dei tassi Usa, allo stesso tempo, sta amplificando la rotazione dei portafogli in atto spingendo gli operatori a vendere titoli tecnologici (che hanno corso tanto e che sarebbero, considerato l’elevato debito delle società growth, tra i più penalizzati in caso di rialzo dei tassi) e acquistare titoli ciclici, fra cui materie prime (che anticipano le fasi di reflazione) e bancari (i cui margini salgono quando la curva del debito si impenna a fronte del fatto che i tassi a lunga su cui basano i ricavi sono più alti di quelli a breve su cui invece basano la raccolta). Nel frattempo la differenza tra i tassi a breve (2 anni) e lunga (10 anni) continua a salire e passa oltre i 140 pb.
Quella tra investitori e Fed è anche una sfida di nervi. Fino a quando potrà durare? La data chiave da questo punto di vista è il 17 marzo, quando si riunirà il consiglio direttivo della banca centrale degli Usa. In quella occasione ufficiale qualsiasi cosa deciderà (o non deciderà) potrebbe avere un impatto sui mercati, in questo momento più che mai in balìa delle azioni della Fed. In questo senso il consiglio direttivo dell’11 marzo della Bce si muove su un clima più disteso. Nell’Eurozona le stime di inflazione sono inferiori (dal punto di vista della crescita attesa non è una buona notizia). E quindi la Bce ad oggi ha meno gatte da pelare rispetto alla Fed.