Huffington Post, 7 marzo 2021
1QQAFA10 Intervista a Susanna Tamaro
1QQAFA10 Nella casa a Roma “grande come un camper” non ci siamo potuti incontrare per via del Covid, ma rimediamo presto con Internet e Skype. Susanna Tamaro è a Porano, in Umbria, nello stesso posto (ma in una casa diversa) in cui, quasi trent’anni fa, fu travolta dal successo planetario di “Va’ dove ti porta il cuore”, “una cosa terribile – mi spiega - perché ero e non sono una persona fatta per la ribalta”. “Non sapevo come gestire la cosa, non capivo niente e tutti mi attaccavano”.
In effetti, la insultarono in ogni modo, le dissero che era una cattolica bigotta, una lesbica, una buonista e molto altro ancora. Correva l’anno 1994 e i social non c’erano. “Meno male!” - aggiunge lei che è su Facebook “ma con moderazione, per mantenere un contatto con i miei lettori” – altrimenti non sarei sopravvissuta”. “Questa cattiveria c’è stata e c’è sempre, perché certa gente, facendo così o dicendo certe cose, si rassicura. Si rassicurano quando ti possono mettere in un cassettino e tirarti fuori quando serve. Chi, invece, come me, non sta in nessun cassettino, inquieta e fa paura”. Nel frattempo, di libri ne ha scritti più di trenta tra romanzi, saggi e libri per ragazzi, tra cui “Cuore di ciccia”, Il cerchio magico”, “Tobia e l’angelo” e “Salta Bart” con cui ha vinto il Premio Strega Ragazzi e Ragazze. L’ultimo romanzo è uscito per Solferino e si intitola “Una grande storia d’amore”.
Lo ha scritto durante il lockdown?
«L’ho iniziato a pensare più di dieci anni fa, ma l’ho finito di scrivere prima del lockdown e meno male, perché dopo, la creatività si è un po’ avvilita. Erano anni che volevo scrivere una storia d’amore, ho l’età oramai per farlo. Passati i sessanta, posso raccontare le storie d’amore con una certa tranquillità. Sono quasi tutte storie di disamore quelle che si raccontano, qui invece ho voluto parlare dell’esatto contrario, dell’amore nelle sue sue diverse fasi in un tempo che fa maturare personaggi e paesaggi».
Per lei che valore ha?
«È il fondamento di una vita. C’è quello per il proprio cane come può esserci la passione per un qualcosa che ci prende molto. Io, ad esempio, ho un grande amore per le api. L’amore è una grande apertura alla vita: occorre accettare i vari stimoli che ci offre pensando che nella vita stessa ci sia una positività».
Crede nell’amore in tutte le sue forme e nel dire questo, è sempre stata attaccata.
«Per anni ho avuto una persecuzione sulla mia identità e sulla mia vita che è stata molto violenta. È stato difficilissimo sopravvivere. Se non avessi avuto grandi passioni – su tutte l’amore per la vita - non ce l’avrei fatta. Mi ha aiutata molto essere circondata da persone che mi vogliono bene e che sanno chi sono veramente. Se esci da una delle rotaie prestabilite, non vieni tollerato. Spesso ti costringono a farlo, ma io sono un’anarchica e non voglio stare in nessuna rotaia. Di questo, ne pago un prezzo molto alto. Hanno girato un film sulla mia vita, diretto dalla regista Katia Bernardi, che mi ha conosciuto e me l’ha proposto per raccontare chi sono veramente. Si intitola “Inedita”».
Chi è allora Susanna Tamaro veramente?
«Una persona che non accetta di essere rinchiusa in nessun cliché, una persona abbastanza pazzerella (ride, ndr). Mentre stavamo facendo le riprese per il film, uno dei ragazzi che lavorava con noi, mi ha detto: ma lei è veramente matta?».
E lei cosa gli ha risposto?
«Che ringraziando il cielo, sì, è vero, sono matta, ma nel senso più positivo del termine. Il film andrà in onda a marzo, non sappiamo ancora se in Rai o nelle sale visto che sono chiuse, ma è un film che mi mette a nudo, mostra finalmente chi sono».
Teatri e cinema chiusi, sono solo una delle tante e tristi facce di pandemia globale: lei come l’ha vissuta e come la vive oggi?
«A dicembre dell’anno scorso, avevo deciso di ritirarmi dalla vita pubblica, perché non ce la facevo più fisicamente, ma poi è arrivato il lockdown ed è stato inutile, perché il mondo si è ritirato e io, noi tutti, con esso. Vivo in campagna ed è meno pesante rispetto a chi vive in città. La situazione, ovviamente, mi ha messo e mi mette una certa angoscia: viviamo una evidente crisi della civiltà ed è questo che mi preoccupa. Non ho paura di ammalarmi, ma sulla creatività vedo che la Pandemia ha un grande impatto. Tutto è paralizzato da questo stato di stallo».
Il motivo fondamentale per cui voleva ritirarsi è stata la sindrome di Asperger di cui è stata la prima a parlare pubblicamente, anche qui controcorrente, visto che la maggior parte delle persone tende a non farlo e a nascondere la malattia, dall’Aids al Cancro.
«Questo accade perché c’è imbarazzo e vergogna e perché si è catalogati anche lì, quando invece dovrebbe essere anche quella una cosa naturale. Il film parla anche di questo: ho pagato un prezzo altissimo sin da bambina di questa realtà della mia mente. All’epoca non sapevo quasi nulla e la diagnosi, quando è arrivata qualche anno fa, è stata una grande liberazione, perché per troppo tempo ho vissuto in casa con un grande nemico spaventoso e senza volto. Ciò mi ha permesso di dire e decidere che certe cose non le faccio più, perché il prezzo da pagare sarebbe troppo alto e non posso permettermelo. Non ho problemi a connettermi via Skype come sto facendo adesso, perché mi piace parlare con le persone, quindi per me, dal punto di vista professionale, è stato benefico. Quello che non faccio più è viaggiare, incontrare persone dal vivo, andare in albergo o cose simili».
Stando in casa, oltre a leggere e lavorare avrà visto anche molta tv?
«Ho smesso di guardarla a giugno dello scorso anno per scelta, perché guardare certe cose mi ha fatto sentire impotente e mi ha fatto male alla salute. Guardavo e ascoltavo Conte, oggi c’è Draghi, una persona seria e preparata. Mi auguro che questo ci porti a una certa serietà, perché ne abbiamo tutti un gran bisogno».
Uno dei capitoli del libro si intitola “La figlia perduta”: avrebbe voluto diventare madre?
«No, non l’ho mai desiderato, anche quando ero molto giovane e innamorata. Ci possono essere tanti modi di diventare madre: si può esserlo senza aver fatto mai un figlio o averne fatti dieci e non esserlo, per dirla chiaramente. Il senso di maternità non è legato necessariamente al fatto fisico dell’aver fatto un figlio. È in questo senso che mi sento parecchio materna».
La maternità è un tema che ricorre spesso nei suoi libri e tanti sono i personaggi femminili che ci ha regalato in questi anni. Alle donne ha deciso di lasciare i suoi soldi. Ci spieghi meglio.
«Nel 2000 ho creato la mia fondazione che ha sede in Svizzera, a Zurigo, che si occupa della creazione di progetti di sostegno e sviluppo per le categorie più deboli, soprattutto donne e bambini e persone in stato di disagio in Italia e nel mondo».
Lei come Valeria Bruni Tedeschi nel film “E’ più facile per un cammello” che chiede al suo notaio se può rinunciare all’eredità di un milione di franchi.
«Attraverso i soldi passano tante cose più complesse. Prima del successo, guadagnavo dieci milioni di lire all’anno, oggi avrei avuto il reddito di cittadinanza. La mia testa era tarata che cinquantamila lire era una cifra mostruosa e cifre più grandi non potevo capirle. Una volta che, grazie al libro, mi sono comprata la casa e l’auto che non avevo mai avuto e mi sono fatta l’assicurazione, mi sono chiesta: cosa me ne faccio di tutti questi soldi? Niente, solo a far litigare gli eredi, quindi, ecco la scelta della Fondazione. I soldi servono a risolvere i problemi, non hanno altre funzioni. Una volta che hai risolto i tuoi, risolvi quelli degli altri: è questa la mia visione del mondo».
Ha paura della morte?
«No, non mi fa paura. Ho paura di soffrire».
E della volontaria interruzione della vita ?
«Sono inorridita dall’accanimento terapeutico, non ha alcun senso. Bisogna accettare che un giorno moriremo. Ho una certa curiosità di vedere se c’è un dopo. Non ho fretta. Dopo tutto questo spettacolo che è la vita, mi sono sempre chiesta: ci sarà un altro spettacolo?».