Corriere della Sera, 7 marzo 2021
Cose che non ho capito di Sanremo
Alcune cose che non ho capito di Sanremo e che sicuramente il direttore-filosofo di Rai1 Stefano Coletta ci aiuterà ad afferrare. La prima: perché Sanremo si è trasformato in X-Factor? Non per caso ha vinto la band lanciata dal talent di Sky (all’Ariston è apparso persino Manuel Agnelli, l’indie più indie che abbiamo). Una trasformazione per conquistare il pubblico più giovane? Per avere più sintonia con le radio? Perché il buon Amadeus non aveva altro da scegliere? Perché le canzoni le hanno suggerite le case discografiche o cosa resta di loro?
Beati i tempi in cui, senza pudore, si poteva dire che “Sanremo è lo specchio del Paese” (non era vero, ma la metafora funzionava, specie nella versione baudesca e tautologica: “Sanremo è Sanremo”) e qui siamo alla seconda incomprensione. Il voto finale è il risultato un po’ cervellotico di una sommatoria che comprende giuria demoscopica, televoto, orchestra, sala stampa. Come se nessuno volesse assumersi una responsabilità diretta. Sembra la piattaforma Rousseau, almeno negli esiti finali. Uno di quegli smarrimenti epocali, tanto per cantare, per cui Nicola Zingaretti confonde il “popolo” con Barbara D’Urso (le dimissioni del segretario del Pd durante Sanremo sono un segno da non sottovalutare). Capisco molto bene perché Amazon Prime e Netflix abbiano investito in spot pubblicitari nel corso della kermesse: vogliono conquistare pubblico della tv generalista e avviarlo alle delizie dello streaming (dall’orario del treno a “lo schermo è mio e lo gestisco io”).
Non capisco perché, ogni anno, Sanremo faccia pubblicità gratis a Mediaset. Ieri Maria De Filippi, oggi Barbara Palombelli (il monologo più autoreferenziale della storia della tv; mancava solo l’accenno a Radio Rai ai tempi dell’Università). Loro non c’entrano, ovvio, ma c’entra forse lo zampino di Lucio Presta? Altra cosa da capire è perché Zlatan Ibrahimovic abbia detto cose più sensate di altri ospiti che di mestiere si occupano di informazione. Non ho capito la presenza di Achille Lauro, ma mi adeguo: le sue non erano esibizioni canore ma “quadri”, qualunque cosa voglia dire. Come dice Pippo Franco nel finale di “Gole ruggenti” di Pier Francesco Pingitore (un film su Sanremo del 1992), «Il Festival è come il fumatore di spinello. Tira sempre». Quest’anno non ha tirato come avrebbe dovuto e Stefano Coletta è si è aggrappato sugli specchi dell’ermeneutica. A proposito, perché la conferenza stampa del mattino non viene mandata nel preserale? È il momento più esilarante di tutta la manifestazione.
Una cosa sola è molto chiara, a parte la sorprendente e inedita immagine di Giovanna Botteri. Che senza Fiorello questa edizione sarebbe stata un disastro, che il Paese si sarebbe depresso più di quanto già non lo sia. Rosario Fiorello non è un comico, non è un intrattenitore, non è un cantante (che un po’ infastidisce Ornella Vanoni), non è un ballerino. È queste cose insieme ma è anche qualcosa di più: è state of mind, è uno stato d’animo vivente la cui missione è portare buonumore (persino nel gufare su chi lo sostituirà l’anno prossimo). In un momento di grande bisogno.