La Stampa, 7 marzo 2021
Treccani risponde alle critiche sul temine «donna»
Il vocabolario Treccani, quello che ogni giorno viene consultato sul web, deve cancellare – o se si preferisce censurare – le «brutte parole»? La questione viene sollevata con una lettera aperta da un centinaio di scrittrici, manager, intellettuali – ivi compresa una pattuglia di maschi – a proposito del termine «donna» nel dizionario dei sinonimi. Si chiede di correggere la voce, perché è corredata di un nugolo di espressioni volgari e sessiste, per esempio «donna da marciapiede» o «zoccola», o «serva». Il catalogo è infatti nutritissimo, non diremmo per colpa della Treccani ma del linguaggio, per come si è formato e come si è evoluto. C’è anche di peggio, se vogliamo: per esempio un termine orribile come «troia», di cui Dino Campana, il poeta folle del nostro primo Novecento, fece eccelso uso in una delle sue composizioni più memorabili.
Ormai è morto da tempo, in manicomio per giunta, e non può replicare. Lo fa invece, l’Istituto dell’Enciclopedia, pubblicando sul sito un testo di Valeria Della Valle - Direttrice del Vocabolario della lingua italiana: che prende molto sul serio la richiesta, un problema di sostanza e non di quelli un po’ folcloristici che spuntano ogni tanto qua e là. Di recente venne ad esempio contestata sui social la presenza del lemma «negro»: ma fu facile spiegare che il vocabolario «registra quanto viene effettivamente adoperato da parlanti e scriventi. Non siamo in uno Stato etico in cui una neolingua "ripulita" rispecchi il "dover essere" virtuoso di tutti i sudditi» fu la secca risposta. Venne aggiunto a titolo di spiegazione ulteriore che di ogni lemma si chiarisce come oggi non abbia, magari, lo stesso senso di ieri. A questo serve un vocabolario.
Ora, alla viglia dell’8 marzo, la questione è tuttavia più complessa, anche per l’autorevolezza delle firmatarie, capitanate da una imprenditrice italiana che vive a Londra, Maria Beatrice Giovanardi – è riuscita in passato a far modificare la voce woman sull’Oxford Dictionary; e tra le quali compaiono figure note come Laura Boldrini, Michela Murgia o Imma Battaglia, oltre a autorevoli studiose. L’argomento centrale dell’accusa è che sul Treccani «brilla per assenza qualunque espressione positiva che raffiguri la donna in modo altrettanto completo e aderente alla realtà, come per la definizione di uomo: donna d’affari, donna in carriera ecc,»; la richiesta è di togliere «i vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera iniziale di riferimento».
Le iniziali col puntino al posto delle parole ingiuriose non sembrerebbero particolarmente utili, almeno per un vocabolario - che precipiterebbe nel caos; ma non è su questo che risponde Valeria della Valle. Il punto, spiega è di sostanza e non di forma: non sarà certo «invocando un falò (non solo simbolico) per bruciare le parole che ci offendono che riusciremo a difendere la nostra immagine e il nostro ruolo». Semmai è giusto l’atteggiamento contrario: «Vorrei che le espressioni più detestabili e superate – aggiunge infatti - continuassero ad avere spazio nei dizionari, naturalmente precedute dal doveroso avvertimento che segnala al lettore quando le espressioni o le frasi proverbiali citate corrispondono a un pregiudizio o a un luogo comune tramandato dal passato ma non più condivisibile».
Un dizionario dei sinonimi, infatti, suggerisce per sua natura parole ed espressioni che hanno «approssimativamente» lo stesso significato e quindi «anche espressioni volgari e spregiative». Ha una funzione documentaria, designa un territorio, è una mappa. Non può imporre né nascondere. Può spiegare.
Non sembra una discussione oziosa, e probabilmente non è destinata a fermarsi qui. Più d’un secolo fa Ferdinand De Saussure insegnò che il rapporto dinamico tra lingua e massa sociale dà luogo a quello che chiamiamo appunto il linguaggio: ovvero che l’esecuzione linguistica è individuale, ma è il legame sociale che crea la lingua. Non la decidono il vocabolario o la grammatica. Dello stesso tenore il messaggio della Treccani: non si può né si deve sostituire allo studio e alla descrizione delle parole, che si evolvono e cambiano continuamente ad opera dei parlanti, una precettistica perfino ben intenzionata che, invece di interrogarle, pretenda di cancellarle.