La Stampa, 7 marzo 2021
Il caso giudiziario di Matteo Sereni
Parare rigori e calci di punizione era la sua specialità. «Quando però devi difendere i pali della tua giustizia, è dura». Matteo Sereni, ex portiere del Torino, la partita più complessa l’ha giocata fuori dal campo, nelle aule di tribunale, dove ha dovuto difendersi da un’accusa infamante: quella di abusi sui figli e realizzazione e vendita di filmati a sfondo pornografico. Il tribunale di Torino prima, quello di Cagliari poi, hanno archiviato tutte le accuse, ritenendole infondate. La sua partita giudiziaria è durata undici anni. È finita con una vittoria. Ma, dice, «porto cicatrici che dubito si possano rimarginare».
Lei è passato per un «mostro», eppure non era vero niente. Qualcuno le ha creduto?
«I miei amici sì, non hanno mai dubitato di me. Ho avuto grande appoggio dai miei ex compagni ed ex colleghi. La mia forza, poi, sono state la mia compagna e mia madre, che mi sono sempre state al fianco».
Nel 2011 ha abbandonato la carriera calcistica, dopo 370 partite e due edizioni vinte della Coppa Italia. Le hanno chiuso le porte?
«Non ce la facevo più, sia a livello psicologico che fisico. Ho avuto un’ernia, protusioni cervicali. Emotivamente pensavo di essere più forte, ma è stato un calvario. Così ho lasciato il Brescia. Il calcio era il mio mondo, ma questa vicenda mi ha precluso qualsiasi lavoro in quell’ambito. Le accuse nei miei confronti erano infamanti e, in questi casi, è difficile trovare chi è disposto ad esporsi al cento per cento per aiutarti. Per undici anni, il mondo mi ha chiuso le porte».
Per questo si è ritirato in Sardegna?
«Cercavo un posto tranquillo, lontano dalla vita mondana. Non mi sono mai sentito solo, ma mi sono rinchiuso in me stesso nella speranza di ritrovare la serenità».
L’ha ritrovata?
«Non è semplice. Ho una bimba che compirà quattro anni a maggio e insieme alla mia compagnia abbiamo rimesso in piedi la nostra vita. La mia preoccupazione principale, adesso, è proteggere la mia famiglia e ritrovare un equilibrio psicofisico. Vorrei fare qualcosa per i tanti padri che si trovano nella mia situazione, è un mio dovere morale. In queste vicende, l’uomo rischia di diventare un capro espiatorio a priori. Mi creda, è dura fare emergere la verità».
Che cosa ha perso?
«Ho perso tanto. Ad esempio la spensieratezza, che mi auguro di ritrovare al più presto. Voglio tornare alla normalità, ritrovare la forza di prendere decisioni, di liberarmi da tutto questo. Una volta ero guascone. Mi piaceva essere divertente, oggi lo sono meno. Porto cicatrici che dubito si possano rimarginare».
Sogna di tornare nel mondo del calcio?
«Non so se è il momento di rimettersi in gioco, non so se ne ho voglia. Purtroppo sono passati tanti anni. Forse oggi, per me, è un po’ tardi».
Cosa le è stato precluso?
«Avrei voluto proseguire la mia carriera, fare alcune cose. Diventare, magari, allenatore dei portieri».
Quando ha saputo della denuncia?
«È un giorno che ricordo bene. Giocavo in serie A, ero al Brescia. Mi ero presentato in Tribunale per una normale udienza di separazione e, all’improvviso, mi è caduto addosso quel macigno. Da lì, il cammino è stato in salita, pieno di insidie e denunce».
Da calciatore si è ritrovato accusato di essere un «mostro». Cosa ha fatto?
«Mi sono affidato mani e piedi ai miei legali, gli avvocati Giacomo Francini e Michele Galasso, che sono stati i miei angeli custodi. In questi casi è l’unica strada da seguire».
Ha temuto di finire in carcere?
«All’inizio sì, sembrava tutto pianificato per rovinarmi. Ma io sapevo di non essere un mostro. Mi guardavo allo specchio e avevo chiari i valori che mi hanno sempre insegnato».
In cosa crede adesso?
«Nella disciplina e nell’amore. Ho avuto la forza di portare questa vicenda sulle spalle grazie alle persone che mi hanno voluto bene. A mia madre e alla mia compagna. Le ho viste crollare tante volte e l’altro giorno, quando hanno saputo dell’archiviazione, avevano un sorriso bellissimo. Sono loro l’ago della mia bilancia».
E con i figli del suo primo matrimonio?
«Ho tanto amore da dare».