la Repubblica, 7 marzo 2021
Il secolo di Gianni Agnelli
Tutte le rughe del secolo segnavano la figura di Gianni Agnelli, come se non avesse soltanto attraversato il Novecento, ma ne portasse l’impronta, avendo conosciuto da protagonista il bene e il male della sua epoca: l’avventura industriale trainata dalla corsa futurista dell’automobile, l’umiliazione nazionale della dittatura, la guerra e la liberazione con gli americani, la ricostruzione e il boom che correva sull’Autostrada del Sole, il buio del terrorismo, il dominio della finanza sull’impresa, la decadenza del capitalismo familiare nel declino dell’aristocrazia industriale, il nuovo paesaggio della modernità folgorato dal web, col silicio che spodesta l’acciaio, l’esplosione polverizzata dell’informazione, la rete al posto della gerarchia in cui lui aveva sempre creduto, e che rappresentava al punto da esserne un simbolo. Era una gerarchia informale, non ufficiale e tantomeno istituzionale, e tuttavia rispettata nei suoi caratteri costitutivi: una leadership naturale sul mondo dell’impresa, un’interlocuzione diretta con l’autorità di vertice (il Quirinale, Palazzo Chigi, la Banca d’Italia, la Segreteria di Stato vaticana), una frequentazione con i Grandi del mondo, da Kissinger a Castro, un modo di entrare e uscire costantemente dal discorso, mai da outsider ma sempre di lato, con un potere che accompagnava il potere conservandosi autonomo, preoccupato più di essere influente che presente. E soprattutto un territorio riconoscibile e riconosciuto dove ogni cosa cominciava e tutto ritornava: naturalmente Torino. Per l’avvocato molto più di una città, una natura del luogo e delle persone, un modo di essere, addirittura un deposito di tradizione, una condizione condizionante.
Anche Torino si considerava dentro e fuori rispetto alle geografia centrale del potere, non contraria ma appartata, custode del mito nazionale delle origini e tuttavia più europea che italiana («certo più simile a Nantes che a Roma», diceva lui), come se si ritenesse capace di agire in proprio, di contare per sé, titolare di un’identità storico- politica sommersa ma comunque viva, che la faceva muovere come un soggetto sociale. Quasi fosse alla ricerca di una formula alchemica distribuita e nascosta nell’uniformità ingannevole della geometria urbana, Agnelli continuava a indagare questa radice e questo divenire della sua città, da Gobetti a Gramsci, a Togliatti, a Einaudi, fino a Valentino Mazzola, a Berruti, a Ceronetti e a Rol, cercando spiegazioni negli uomini più che nei libri, nella curiosità delle biografie, nella sapienza dei luoghi.
Al centro di questo paesaggio, regnava e pesava gigantesca la fabbrica, il castello di Mirafiori coi suoi 2 milioni di metri quadrati, i 20 chilometri di ferrovia interna, i 220 metri bianchi della palazzina degli uffici, le officine, la catena di montaggio, il sapere operaio che trasmetteva da una generazione all’altra l’arte di fare “i barbis a le musche”, i baffi alle mosche. Luogo mitologico della produzione, naturalmente, dove l’acciaio e la tecnica si fondevano nella linea fordista che dava forma all’immaginario italiano dei consumi. Ma anche luogo ideologico del confronto-scontro tra le classi che qui si misuravano tra il tornio, il mercato e la fresatrice, e acquistavano fisionomia proiettandosi fuori, per creare le loro organizzazioni politiche e sociali in un prolungamento naturale, come se la città fosse costruita e assemblata con le stesse chiavi inglesi e i medesimi bulloni della fabbrica.
Per l’avvocato la monumentalità di Mirafiori e l’archeologia familiare del Lingotto erano l’ancoraggio di una sua personale legge di gravità, la garanzia di non fluttuare nell’immaterialità fatua dell’apparire, rimanendo nella dimensione concreta del fare: una garanzia d’identità, una conferma solida di destino, da cui derivava un ruolo. Ma proprio questa imponenza e questa incombenza della fabbrica dominante su ogni cosa pretendevano una forza nel governo che Agnelli non ha mai cercato in sé perché sapeva di non averla, ma ha sempre inseguito, dopo averla vista all’esercizio con suo nonno e con Vittorio Valletta. Si può dire che era affascinato dalla forza altrui, e questo lo portava a scusare anche metodi disinvolti: per un lungo periodo la trovò in Cesare Romiti, a cui affidò i pieni poteri della gestione negli anni in cui il terrorismo attaccava la fabbrica. Si completavano a vicenda, naturalmente dandosi sempre del lei. Ma quando nel ’93 Romiti con l’aiuto di Cuccia tagliò la strada alla successione naturale di Umberto Agnelli a Gianni, spostando il comando dalla famiglia a Mediobanca, l’avvocato per la prima volta in minoranza organizzò la lenta operazione di riconquista, che infine andò in porto con il dopo-Romiti, più o meno avventurosamente fino all’avvento di Marchionne. La strategia prevalse infine sulla forza e Torino riprese la sua autonomia. Ricongiungendo la fabbrica e la famiglia, Agnelli aveva ricucito il sistema e aveva preservato il mandato ereditario del nonno.
Ciò che cercava l’avvocato muovendo contro il golpe bianco, infatti, non era solo il recupero della potestà: ma il ripristino del principio dinastico istituito dal vecchio Senatore, per trasmetterlo intatto al fratello e poi al nipote, come un diritto naturale, un’impronta che attraversa le generazioni. Era uno dei cinque elementi che sostenevano il suo esercizio del potere, tenuti insieme dall’anacronismo di un’educazione militare e da un culto estetico della forma, che gli imposero ad esempio di mostrarsi in pubblico a un convegno, in prima fila con la moglie Marella, appena due giorni dopo il funerale del figlio Edoardo, suicida, come una conferma e una rassicurazione alla città, il suo scenario fisso di riferimento nei successi come nelle ferite. Oltre alla regola dinastica, gli altri elementi erano il peso della fabbrica, la dimensione internazionale, l’alleanza tra Fiat e Stato (nella convinzione che la ruota di Torino avesse macinato benessere per tutti, e nell’utilità di scambiare con Roma ammortizzatori e misure anti-crisi) e naturalmente la piemontesità, per lui incentrata sulla Fiat, sulla Juventus e sulla
era l’ultima, la “T” di Torino. La squadra di calcio riusciva a collegare nello spazio dei 90 minuti di una partita la sua passione privata e un sentimento nazionale sparso per tutto il Paese: col tentativo di contagiare persino Mikhail Gorbaciov, accompagnato un mattino a sorpresa al campo Combi dove si trovò davanti, stupito, i giocatori bianconeri che sospesero l’allenamento per chiedergli l’autografo. Il giornale, di cui Agnelli aveva voluto essere presidente, apriva e chiudeva il cerchio identitario, guardando l’Italia e il mondo attraverso la lente di Torino: da un lato raccontava l’universo della produzione del Nordovest mentre il Paese sembrava voltarsi verso il Nordest, dall’altro radunava nelle sue pagine, per una circostanza singolare ma non casuale, gli uomini che avevano vissuto la breve ma profonda esperienza del Partito d’Azione: Bobbio e Galante Garrone, Mila, Jemolo, Gorresio e naturalmente Casalegno. Anche in politica contavano gli uomini. Anticomunista convinto, Gianni Agnelli andò a trovare a casa Luciano Lama morente perché lo considerava un galantuomo, come suo nonno ripeteva di Bruno Buozzi, il sindacalista socialista negli anni dell’occupazione rivoluzionaria delle fabbriche. E disse a Ugo La Malfa nel ’76 che era pronto a reinventarsi ambasciatore a Washington, se serviva un uomo di garanzia per spiegare l’Italia agli americani nel momento in cui il Pci sembrava avvicinarsi alla stanza dei bottoni. I suoi riferimenti erano fissi: l’America, dunque il Patto Atlantico, Bruxelles, quindi l’Europa, la Francia con la casa vicino all’Eliseo, un capitalismo democratico nella gestione, autocratico nell’autorità nobiliare perenne delle Grandi Famiglie, e un sentimento dell’Occidente che prevaleva su tutto, come una scelta morale e non come un obbligo della guerra fredda.
Tutto il resto è culto della leggenda, coltivazione di un’immagine da copertina tra mode, stili e vezzi, una specie di controcanto continuo all’immagine ufficiale del primo capitalista italiano, con i due piani che in realtà si sovrappongono nel consumo quotidiano di una popolarità che va oltre i ruoli e le funzioni e trasforma un imprenditore in personaggio. Negli ultimi anni mentre il suo mondo si corrompeva, la crisi dell’automobile seminava incertezza, la produzione si riduceva con i posti di lavoro, Gianni Agnelli cercò di comprarsi il futuro che gli sfuggiva, incaricando Paolo Fresco di trovare un partner per la Fiat. Lo trovò in America, come aveva sempre pensato, mentre in Europa considerava proprio Peugeot il marchio più vicino.
Ma fece appena in tempo ad affacciarsi al nuovo secolo non come a un inizio ma a un’incompiuta, senza poter vedere le risposte alle pesanti incognite che si aprivano: perché, dopo aver impersonato lo spirito della grande epoca più di chiunque, era destinato dalla sua stessa storia ad essere per sempre, fino in fondo, un uomo del Novecento.