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 2021  marzo 07 Domenica calendario

Cristina Zavalloni canta tutto

Cristina Zavalloni (1973; nella foto di Barbara Rigon) incarna con invidiabile leggerezza la versatilità dello strumento primordiale per eccellenza, la voce. Negli anni ha dimostrato di sapersi muovere a proprio agio nei meandri del jazz contemporaneo, fra il rigore dei madrigali di Claudio Monteverdi, le sperimentazioni di Cathy Berberian, la lascivia solare della musica latina, con una presenza scenica che non passa inosservata. Il talento e lo studio sostenuti da rara determinazione ne hanno fatto una musicista completa (canta, compone, arrangia, e tiene sullo sfondo l’amore per la danza, che ha praticato e che le ha lasciato addosso un portamento antico). Ha da poco pubblicato un disco (For the living, Encore Music), che ha descritto a «la Lettura» come la «chiusura del cerchio», ne sta per realizzare un altro sulle canzoni dello Zecchino d’Oro con Paolo Fresu ed è appena stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica, riconoscimento che «ha un valore simbolico forte in un momento così. Poi dato a me, che faccio questa musica...».
Provi a definire la sua musica per cominciare.
«È musica fuori dal grande circuito commerciale».
Il nuovo disco, registrato a sezioni separate fra Arezzo e la Norvegia, è prodotto da lei con Jan Bang e vi suonano musicisti jazz e classici.
«La natura umana non è fatta per comunicare a distanza ma la pandemia ci ha messo nella condizione di non poterci incontrare tutti durante la registrazione. Jan però mi ha dato coraggio e infuso fiducia». 
Non vorrà dire che le manca il coraggio?
«Io sono molto coraggiosa ma devo far fronte a paure più grandi di me. È questo mix che mi rende spavalda». 
Ma quali sono le sue paure?
«Be’ la prima, quella ancestrale, è di deludere». 
Deludere chi? 
«Uno psicologo alle prime armi direbbe mio padre. È per ottenere il suo amore che ho infatti intrapreso questa avventura nella musica. Naturalmente crescendo ho capito che questa della musica era la mia vocazione, la mia chiamata, però il problema è rimasto. Se non è più papà, saranno il pubblico, il produttore, le mie aspettative da perfezionista». 

Ansie per questo disco? 
«Una. La richiesta iniziale di Jan: io desidero fare con te un disco che metta in luce solo una delle tue corde espressive. Quella intima». 
E come si è tradotto il tutto? 
«In un’agogica dal mezzo piano al pianissimo, quella più raccolta, più meditativa, più liquida. Jan ha usato spesso l’aggettivo “liquido”». 
È andato però tutto più che bene, ci sembra.
«Sì, ma la domanda era: ce la farò? Sotto testo: pensa a tutti quei colori esuberanti che ti caratterizzano e ai quali ricorri quando ti trovi in difficoltà. Dimenticateli». 
Si è messa in contatto con la parte più intima di sé. 
«E non si sa mai cosa si trova lì sotto».
Lei che cos’ha trovato?
«All’inizio dolore. Nel 2020 il mondo era sconvolto. Gli amici cadevano come birilli. Sentivo un forte peso». 
E poi cosa è successo? 
«Per fortuna che c’è la musica che aiuta. Jan per esempio nella registrazione di Soupir, una poesia di Stephane Mallarmé musicata da Maurice Ravel, mi ha portata a una levità galleggiante di suono. Mi sentivo fluttuare».
Lei quel brano come l’avrebbe interpretato, invece?
«Da sola forse mi sarei messa il vestito della musica classica. Sarei stata troppo rispettosa, non lo so. E invece così abbiamo uno stesso suono per tutto il disco». 
Che è dedicato a una musicista scomparsa.
«Sì la mia amica trombettista olandese Sanne van Hek, che si è suicidata nel 2020. Era fragile. Mi ha colpito tantissimo ma mi ha anche fatto arrabbiare, perché ha scelto la via più semplice, invece di stare qui, parlarne, affrontare i problemi insieme. Il mio messaggio è: io resto, sono qui e canto anche per te. Sono convinta che chi se ne va assuma una forma diversa, magari quella di un angelo, ma che resti comunque nella nostra vita». 
Un brano lo ha intitolato «Contagio»...
«Ha il doppio significato, perché noi musicisti ci sentiamo vivi nel momento in cui siamo esposti al contagio dell’altro. Per noi è fondamentale prendere dagli altri». 
Della nuova situazione pandemica che cosa pensa?
«Chiudono le scuole e tengono aperte le attività economiche. Il governo dovrebbe chiudere le scuole solo il tempo necessario per metterle in sicurezza».
Tornando alla musica, quali sono le voci fondamentali nel suo percorso?
«Sarah Vaughan per il suono e lo stile. È la prima con Ella Fitzgerald e Billie Holiday ad aver codificato il jazz».
Una attuale e una della generazione di mezzo? 
«La portoghese Gisela João, che affronta in modo coraggioso un genere chiuso come quello del fado, e la greco-americana Diamanda Galas, che per me è stata un punto di riferimento per la sua capacità di andare oltre il suono della sua voce nelle sue performance. È portatrice di un mondo espressivo spiritual-sciamanico».
E i suoi eroi, al di fuori della musica, chi sono?
«Per rispondere leggo un passaggio da C’è chi, una poesia di Wisława Szymborska, che ho qui. “C’è chi meglio degli altri realizza la sua vita./ È tutto in ordine dentro e attorno a lui./ Per ogni cosa ha metodi e risposte./ (...) Pensa quel tanto che serve,/ non un attimo di più,/ perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio”. Ecco, i miei eroi sono coloro che non temono il dubbio».