La Lettura, 7 marzo 2021
Marzo 1821
Tra le rivoluzioni borghesi del secolo XIX che realizzarono, dal 1799 al 1860-61 passando per il Quarantotto, l’unità d’Italia, ce n’è una che sembra essere considerata un evento minore: i moti del 1820-21. Forse perché troppo vicina all’avventura napoleonica che mise a soqquadro l’Europa; forse perché quei rivolgimenti sono legati alle società segrete oppure perché i moti di liberazione presero spunto dalla Spagna in cui il sovrano, Ferdinando VII di Borbone, fu costretto nel 1820 a richiamare in vigore la Costituzione di Cadice del 1812, che poi avrebbe di nuovo revocato con il trionfo della reazione assolutista nel 1823. Sta di fatto che la storiografia ha poco indagato quei moti liberali.
Eppure, in quel lasso di tempo che va dal luglio del 1820 al marzo del 1821, un’unica aspirazione costituzionale percorse la Penisola e un’aria di rinnovamento giunse a Napoli, a Palermo, a Torino, a Milano e le monarchie, dai Borbone ai Savoia, concessero la Costituzione. Il filo conduttore dei moti è proprio il pensiero costituzionale legato al sentimento religioso cattolico.
Grandi nomi sono legati a quegli eventi: al Nord Silvio Pellico, che fu rinchiuso nella fortezza dello Spielberg e scrisse Le mie prigioni, che furono un atto di accusa contro l’Austria, e Santorre di Santarosa, che spinse Carlo Alberto a concedere la Costituzione; al Sud il generale Gabriele Pepe, che fu il punto di riferimento dell’esercito da cui partì la rivoluzione, e Pietro Colletta, che ci ha lasciato la Storia del Reame di Napoli con la cronaca degli eventi rivoluzionari, e poi le figure di Giuseppe Poerio e Michele Carrascosa che, tra gli altri, furono esiliati. Così come era accaduto nel 1799, quando la Repubblica era stata travolta dalle forze sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, gli esuli napoletani crearono una rete di relazioni – la «famiglia italiana», la chiamerà Croce – che sarà fondamentale ai fini del processo di unificazione nazionale.
Ecco, l’importanza di quei moti è proprio la maturazione della coscienza politica italiana che lotta per ottenere libertà costituzionali. Dunque, avendo come riferimento il testo di Giuseppe Galasso Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale 1815 -1860(Utet) le cose andarono così.
Il 2 luglio il tenente Michele Morelli e il sottotenente Giuseppe Silvati a Nola disertarono con 127 sottufficiali e soldati: guidati dal prete carbonaro Luigi Minichini si diressero verso Avellino. Il vero capo del movimento rivoluzionario-costituzionale era il generale Pepe che, partito da Napoli, si ricongiunse ai suoi uomini controllando quell’esercito che garantiva sia la forza della rivoluzione sia la pace dell’ordine pubblico. Perché, va sottolineato, la rivoluzione del 1820-21 non comportò un grande spargimento di sangue. Re Ferdinando I si ritirò lasciando al figlio Francesco il compito, in qualità di vicario, di reggere il governo.
Da quel momento in poi ogni tappa fu bruciata: il 6 luglio fu concessa la Costituzione (sottoscritta da Ferdinando I); il 9 luglio ci fu l’intesa tra Pepe e Francesco per una grande sfilata per le vie di Napoli e il generale ebbe il comando dell’esercito fino alla prima assemblea del Parlamento: la bandiera del Regno restò, ma vi fu aggiunto il tricolore come insegna della Carboneria. Nacque un nuovo governo composto da politici e intellettuali già fedeli al precedente re Gioacchino Murat che fu il primo a concepire un’Italia unita: Francesco Ricciardi, Giuseppe Zurlo, Luigi Macedonio, Michele Carrascosa, tra gli altri. Il 13 luglio ci fu il giuramento e giurò solennemente anche re Ferdinando I. Il 22 luglio furono indette per il 20 e 27 agosto e per il 3 settembre le elezioni per il Parlamento. I problemi giungevano da Vienna, che già minacciava di marciare su Napoli, e dalla Sicilia che aveva una sua via indipendente alla rivoluzione e alla Costituzione. Tuttavia, in poco tempo un grande risultato era stato raggiunto. Forse, troppo poco tempo. La cosa avrebbe dovuto far riflettere. Ma l’entusiasmo prevalse su tutto.
Tra i libri che sono stati pubblicati in occasione dei duecento anni della rivoluzione napoletana c’è l’ottima ricostruzione di Nicola Santacroce edita dall’Associazione storica del Caiatino: Le elezioni per il Parlamento del 1820 in Terra di Lavoro e Decio Coletti. Il testo è prezioso perché pubblica documenti inediti sulle elezioni, la Formola della protesta di Ferdinando I e il Cenno dei fatti accaduti nel regno di Napoli nei primi giorni di luglio del 1820. Quest’ultimo è un ampio articolo che il 12 luglio il tenente generale Francesco Pignatelli di Strongoli – la cui famiglia era stata tra i protagonisti della Rivoluzione repubblicana del 1799, tanto che con la reazione borbonica i suoi fratelli, Ferdinando e Mario, furono giustiziati il 30 settembre di quel terribile anno – pubblicò: faceva da un lato un resoconto delle giornate di rivoluzione e di conquista della Costituzione e dall’altro avanzava considerazioni. Tra queste era molto significativa quella in cui si evidenziava il ruolo e lo spirito del principe Francesco, che in un Consiglio dei ministri, come reggente del governo, aveva detto di «essere sempre stata sua opinione non potersi ne’ nostri tempi ben governare una nazione europea che costituzionalmente». Non vi poteva essere distanza maggiore dal padre Ferdinando I che, invece, allontanava da sé questa idea del governo costituzionale come l’unico valido nella nuova Europa. Una monarchia costituzionale non può reggersi se il sovrano rifiuta la Costituzione.
Così Ferdinando I, dopo aver giurato sulla Costituzione, comunicò il 7 dicembre al Parlamento di essere stato convocato a Lubiana dai sovrani della Santa Alleanza. Disse lasciando Napoli: «Dichiaro a voi ed alla Nazione che farò di tutto, onde i miei popoli godano di una Costituzione saggia e liberale». Ma appena fuori dal porto lanciò la sua «Protesta», dichiarando nullo tutto quanto avvenuto fino a quel momento. Il sovrano era legato con l’Austria da un patto segreto con cui si impegnava a difendere il regime assolutista e a respingere ogni ordine costituzionale.
Mentre a Napoli la rivoluzione tramontava – le truppe austriache entreranno in città il 23 marzo e chiuderanno il Parlamento – in Piemonte sorgeva. Ancora una volta l’origine del moto era l’esercito: il 10 marzo si sollevò la guarnigione di Alessandria e rapidamente la rivolta si estese a Vercelli e Torino. Anche qui vi fu un rapporto ambiguo con la monarchia che si materializzò nella figura di Carlo Alberto, il quale era erede presuntivo al trono per l’assenza di discendenti diretti di Vittorio Emanuele I e del fratello Carlo Felice. Del movimento costituzionale facevano parte giovani rappresentanti della nobiltà come Cesare Balbo e Giovanni Provana di Collegno, membri della società dei Federati ed esponenti del patriziato milanese. In gioco vi era l’ostilità verso l’Austria e la possibilità di conquiste territoriali.
Così Carlo Alberto prima promise l’appoggio alla cospirazione e poi fece marcia indietro. Ma troppo tardi. La prima conseguenza della rivolta fu l’abdicazione di Vittorio Emanuele I in favore di Carlo Felice che, trovandosi a Modena, nominò Carlo Alberto reggente. Gli insorti chiesero la Costituzione e Carlo Alberto la concesse, fatta salva l’approvazione del re. Che, infatti, non ci fu: Carlo Felice sconfessò Carlo Alberto e gli intimò di ritirarsi a Novara. Ma ancora una volta il reggente si dimostrò ambiguo: prima si schierò con i rivoluzionari e nominò Santorre di Santarosa ministro della Guerra, e poi la notte del 21 marzo li abbandonò, ritirandosi nella fortezza di Novara. Di conseguenza, mentre gli austriaci entravano a Napoli, un altro corpo di spedizione asburgico venne inviato per dar manforte al maresciallo de La Tour in Piemonte. Le forze ribelli guidate da Santarosa nulla potettero.
La rivoluzione era finita. Avanzava la reazione. Una dura reazione, quella che non c’era stata subito dopo il Congresso di Vienna. Carlo Felice epurò l’esercito, chiuse l’università, fece eseguire condanne a morte, a Modena furono giustiziati nove carbonari, tra i quali il prete Giuseppe Andreoli. Sì, perché la caratteristica dei moti del 1820-21 è il coinvolgimento del clero rivoluzionario: i sacerdoti, soprattutto nelle province, aderirono alla Carboneria, nella quale videro il mezzo per il miglioramento della loro vita sociale e la conferma della fede cattolica riformata per via costituzionale. Non a caso tra i deputati del Parlamento del Regno delle Due Sicilie furono eletti nove sacerdoti, tra cui l’arcidiacono Giuseppe Desiderio, il prete Mariano Semmola e il cardinale Giuseppe Firrao. Il Risorgimento passava anche (e soprattutto) attraverso l’esigenza di una riforma religiosa.